di Francesco Federico
Si sono appena concluse negli Stati Uniti le elezioni presidenziali più complesse e più “vecchie” della storia americana.
Infatti, entrambi i contendenti vanno ben oltre le settanta primavere, con il democratico Biden che il prossimo 20 gennaio, a 78 anni compiuti, sarà il più anziano Presidente a insediarsi alla Casa Bianca.
Nonostante ciò, USA 2020 ha riservato diverse sorprese e tanti spunti di interesse.
Una elezione che inizialmente appariva incapace di scaldare i cuori degli americani si è invece dimostrata quella con la maggiore partecipazione elettorale della storia statunitense, con più di 150 milioni di americani che hanno partecipato direttamente alla scelta del nuovo Presidente degli Stati Uniti, bocciando l’operato di Donald Trump.
Capita raramente che il Presidente uscente non venga confermato per un secondo mandato. Negli ultimi cento anni questo è successo solo altre due volte.
I perdenti.
La prima nel 1980, quando il democratico Jimmy Carter pagò la lunga crisi degli ostaggi all’ambasciata di Teheran perdendo con Ronald Reagan.
Nel 1992 fu invece George H. Bush, già Vicepresidente di Reagan dal 1981 al 1989, a non riottenere la conferma dopo 4 anni alla Casa Bianca, a causa del grande risultato ottenuto da Ross Perot, che come “terzo candidato” pescò gran parte del suo consenso dalla parte repubblicana, favorendo così la vittoria di Bill Clinton.
In realtà vi fu anche un terzo caso, che non compariamo volutamente con i due precedentemente descritti in quanto si tratta di una “anomalia nella anomalia”.
Nel 1976 Gerald Ford perse contro Jimmy Carter dopo essere stato Presidente per solo poco più di due anni. Infatti, egli subentrò a Nixon nel 1974 quando Tricky Dick dovette dimettersi poco prima del voto del Congresso sull’impeachment a suo carico, in seguito allo Scandalo Watergate. “L’anomalia nella anomalia” sta nel fatto che Gerald Ford fu l’unico Presidente degli Stati Uniti che arrivò alla Casa Bianca senza essere mai stato eletto.
Il Vicepresidente eletto in ticket con Nixon nel 1972 era infatti Spiro Agnew, il quale dovette anche lui dimettersi anzitempo a causa di qualche spiacevole problema di carattere giudiziario; fu ritenuto responsabile di corruzione e riciclaggio di danaro. Ford venne così nominato da Nixon come nuovo Vicepresidente e in tale veste poco dopo lo sostituì alla Casa Bianca.
Ma torniamo ai giorni nostri.
Nonostante Donald Trump sia entrato nel ristretto club dei “trombati” dopo un solo mandato è interessante evidenziare che al contrario degli altri soci lui ha perso ottenendo comunque un grandissimo consenso elettorale.
Un risultato inaspettato ai più.
Infatti, al contrario di quanti lo considerassero prima delle elezioni un candidato debole e improponibile, egli è riuscito a catalizzare su di se circa 73 milioni di preferenze, 10 milioni in più rispetto al 2016, quando riuscì a conquistare la Casa Bianca superando la favorita Hillary Clinton, risultando così, seppur perdendo, il secondo candidato alla presidenza più votato di sempre, superato solo proprio da Sleepy Joe (il nomignolo con cui durante la campagna elettorale Trump derideva Joe Biden) che di milioni di voti ne ha ottenuto 6 in più, arrivando a circa 79.
Da parte sua, il neo Presidente Biden, nonostante l’età matura e una campagna elettorale dai toni decisamente pacati, è riuscito ad andare oltre il consenso dell’elettorato che puntualmente si esprime a favore del candidato democratico, recuperando gran parte di quello perso dalla Clinton quattro anni prima e infine portando a votare anche tanti altri americani che, pur non esprimendosi solitamente per le presidenziali, hanno voluto evitare alla Nazione altri quattro anni di amministrazione Trump.
Trump vs Trump.
Biden ha dimostrato nei fatti di essere un contendente del Presidente in carica più che valido, ma allo stesso tempo l’impressione che emerge oggi è che uno dei più grandi avversari di Trump non sia stato solo il candidato democratico, ma Trump stesso.
È stata infatti l’estremizzazione stessa messa in campo durante l’intero mandato presidenziale che, a costo di dividere il Paese, intendeva fidelizzare e far crescere il consenso pro Donald (così come in realtà è stato) a convincere tantissimi americani, solitamente assenti all’appuntamento elettorale, ma oggi fortemente imbarazzati dall’azione della amministrazione uscente, a mobilitarsi in massa per licenziare il Comandate in Capo.
Sicuramente molti di più di quanti Trump stesso potesse immaginare.
In tutto ciò Trump assume un merito, seppur paradossale. Quello di essere riuscito a motivare, nel bene o nel male, un numero mai così grande di americani alla partecipazione elettorale, esaltando di fatto il rituale più importante della democrazia statunitense.
Prospettiva futura.
L’aspetto politicamente più interessante di queste movimentate elezioni presidenziali è rappresentato sicuramente dalla figura del Vicepresidente eletto, Kamala Harris.
Ventidue anni più giovane del Presidente Biden. Considerata da molti come una progressista.
E proprio qui si nasconde l’elefante nella stanza. Che assume due nomi, quelli di Barack Obama e Kamala Harris.
L’ex Presidente, seppur senza tanto clamore, in questa occasione ha chiaramente rispolverato la sua riconosciuta leadership, stimolando i democratici a compiere importanti e premianti scelte strategiche nell’individuazione del ticket presidenziale Biden/Harris, dove alla esperienza riconosciuta del primo (trenta anni vissuti in Senato e altri otto come Vicepresidente proprio di Obama) si è affiancata la prospettiva futura rappresentata dalla carismatica e combattiva Senatrice della California, prima donna (di colore) neo eletta alla vicepresidenza degli Stati Uniti.
Non sarebbe infatti una sorpresa per nessuno se nel 2024 l’ormai ottantaduenne Presidente Biden decidesse di rinunciare al secondo mandato lasciando campo libero proprio a Kamala.
Possiamo quindi pensare che la Harris, con l’immediato pieno sostegno del proprio Partito, possa essere messa nelle condizioni di utilizzare al meglio questi quattro anni per accreditarsi davanti all’elettorato americano come la naturale prossima candidata di parte democratica, coprendo spazi di maggiore visibilità rispetto alle passate vicepresidenze.
D’altra parte, non stupirebbe nessuno se che in contrapposizione a questo mandato presidenziale vi fosse la continua e pesante presenza di Trump come autocandidato in pectore dei repubblicani per il 2024.
Il vecchio Donald che nel 2024 avrà 78 anni, gli stessi che oggi ha il neoeletto Biden, oltre a sentirsi per questo anagraficamente legittimato per un’altra esperienza presidenziale, dopo il grande risultato elettorale appena ottenuto ha la consapevolezza di avere in pugno il Grand Old Party, che per il verso della medaglia corre il rischio di rimanere soffocato proprio dalla lunga morsa del tycoon.
Se riuscirà ad accettare lui stesso la lunga attesa di un mandato presidenziale, l’ambizioso Trump sarà in grado – anche utilizzando la popolarità del suo personaggio e/o puntando direttamente sul “quarto potere” per supportare una campagna elettorale che potrebbe essere lunga 4 anni e al contempo per ovviare alla ”ostilità” nei suoi confronti da parte dei grossi network nazionali e dei social – di “alimentare” e “motivare” il suo elettorato per la nuova sfida del 2024.
Il fantasma McCain.
Chiudiamo con un risvolto interessante che ha in parte determinato la sconfitta di Trump e che conferma il grande potere divisivo che egli esercita, da un lato rafforzandolo ma dall’altro creandogli un gran numero di oppositori: l’Arizona.
Da sempre Stato repubblicano (con la sola recente eccezione di Bill Clinton nel 1996), quest’anno ha preferito Biden all’uscente Trump.
È lo Stato di John McCain, Senatore dal 1987 al 2018 (anno della sua scomparsa) e candidato alla presidenza degli Stati Uniti in un momento sbagliato, nel 2008 contro un travolgente Obama.
Il Senatore McCain era persona molto apprezzata nel mondo politico statunitense, anche da molti democratici che ne riconoscevano capacità, correttezza e attaccamento verso la Nazione.
Egli fu uno dei tre senatori repubblicani che, in controtendenza con la linea del partito, votò contro la proposta che tentava di smontare l’Obamacare.
Il suo soprannome era Maverick, cane sciolto, per la tendenza a fare quel che lui considerava giusto, anche al di fuori di quelle che potevano essere le direttive del suo Partito.
McCain prima di morire chiese espressamente che Trump non fosse invitato al suo funerale. Così fu.
Al contempo espresse il desiderio che per il suo elogio funebre venissero invitati Barack Obama e George W. Bush.
Un grande smacco per il Presidente in carica.
Una scelta figlia della scarsa stima che il Senatore McCain riponeva nei confronti del biondo Donald sin dalle primarie repubblicane del 2016.
Trump successivamente non perse l’occasione di attaccare duramente McCain su ciò che teneva forse di più, ossia sul suo passato di eroe nella guerra del Vietnam, dove venne catturato e rimase prigioniero per sei lunghi anni.
“McCain non è un eroe di guerra, o meglio, è considerato un eroe solo perché è stato catturato. Ma a me non piacciono le persone che si sono fatte catturare”, disse una volta Trump con fare sprezzante e serenamente noncurante del fatto che nel suo passato egli non poteva vantare neanche l’adempimento del servizio militare, oltre a celare il sospetto diffuso di aver evitato proprio il Vietnam solo grazie ad un medico compiacente.
Lo stesso Trump fu inoltre l’unico tra i repubblicani a non commentare la decisione di McCain di interrompere le cure poco prima di morire.
Si odiarono fino alla fine.
Fra i più stretti amici di McCain vi erano due democratici John Kerry e Joe Biden. I tre nutrivano tra loro grande stima reciproca.
Infatti, John Kerry nel 2004, dopo aver ottenuto la nomination dei democratici per la corsa alla Casa Bianca, prese in seria considerazione la proposta di un Senatore del Delaware di indicare come vice proprio il repubblicano in un inedito ticket presidenziale. Alla fine, non se ne fece niente per ovvie difficoltà nello spiegare la scelta all’elettorato.
Quel Senatore che suggerì a Kerry il ticket con McCain si chiamava Joe Biden.
Lo stesso Biden, il giorno della scomparsa di McCain lo definì senza indugio uomo di coraggio, integrità e onore: “Non ha mai perso di vista quello in cui credeva più fermamente: il Paese, prima di tutto”.
Tutto ciò non è mai stato dimenticato dalla famiglia del Senatore scomparso, che quest’anno al momento della scelta presidenziale tra l’amico Biden e lo spezzante Trump, non ha avuto il minimo dubbio mobilitandosi con convinzione e contribuendo a far sì che l’Arizona divenisse uno degli Stati fondamentali per consumare la tanto attesa vendetta.
Tanto che oggi, dopo due anni dalla scomparsa di McCain, proprio il caro amico Joe ha contribuito a ridonare serenità all’anima del vecchio Maverick.