di Emiliano Deiana
Dal dibattito pubblico, come sempre dopo le grandi fiammate, la ‘questione dei pastori’ sembra sia stata espulsa. Il prezzo del latte – oggi come nel gennaio 2019 – lo fa il mercato e non le promesse elettorali. Le difficoltà strutturali del mondo delle campagne sono le medesime di allora, le strade rurali (insieme a quelle provinciali) in uno stato di indecoroso abbandono, le forme di cooperazione soffrono dei medesimi ritardi e incapacità di due anni fa, i tavoli di filiera che pure hanno prodotto idee sembrano fermi rispetto alla velocità con cui il mondo evolve, così come appare in un endemico ritardo la discussione sulla nuova PAC 2021-2027 legata, ancora troppo, non agli investimenti e all’innovazione, ma alle misure di ‘glaciazione’ (indennità compensativa e benessere animale).
Eppure la ‘questione dei pastori’ pare essere stata espulsa dal dibattito pubblico. Il tema vero, quindi, è come farla rientrare in un modo corretto, democratico e non violento: un modo ‘sardo’, pienamente e autenticamente legato alla nostra terra, per affrontare un problema centrale per la vita non solo della nostra economia, ma soprattutto delle nostre comunità.
Come, dunque?
Facendola evolvere da rivendicazione di comparto (peraltro esistente) a rivendicazione di sistema.
La questione dei pastori non può essere affrontata né risolta fuori dalla questione dei paesi e delle aree interne. La pandemia ci ha mostrato che, a volerlo, un altro modo dell’abitare e del vivere – lento, distanziato e, in una parola, umano – è possibile.
È possibile vivere e lavorare fuori dai grandi centri e dalle grandi concentrazioni urbane (di cui i paesi riconoscono il valore e vogliono essere il complemento e il valore aggiunto). È possibile immaginare, oggi più che mai, un’economia più verde e maggiormente a misura d’uomo e in armonia col creato.
Oggi le difficoltà dei pastori si fondono con le difficoltà dei baristi, dei ristoratori, degli studenti, degli intellettuali, degli artisti, delle guide turistiche così colpiti dalle restrizioni del COVID-19: sono loro, oggi, per usare un glossario antico, la nuova classe degli emarginati e lo sono, anche, perché vivono in luoghi su cui incide da decenni una politica dell’abbandono che li ha depredati di scuole, medici, trasporti, servizi di base. Bisogna che dai paesi si levi una voce, corale e accorata, che dimostri che la Questione dei pastori non è cosa diversa dalla ragione di vita dei paesi e degli altri comparti: una voce, si diceva, accorata, democratica, nonviolenta che ribadisca il diritto all’esistenza di chi vive fuori dai contesti e dalle concentrazioni metropolitane. E non una semplice rivendicazione per un’esistenza sempre identica a sè stessa ma capace di produrre innovazione, scambio, relazione. Occorre però definire un prontuario di interventi che stabilisca, prima che nelle norme, nella società, le priorità e i campi d’azione. Definire anche questioni che abbiano – in qualche modo – a che fare, usando un ossimoro, con ‘l’utopia delle cose concrete’.
La Regione Sardegna e gli enti locali, ad esempio, dovrebbero riconoscere il pastoralismo, la transumanza, l’agricoltura e l’allevamento non intensivo come uno degli elementi fondanti la cultura e l’identità sarda, per promuoverle oltre che con le misure reali per il sostegno alle politiche di comparto anche con iniziative che abbiano a che fare con la cultura e la vita dei luoghi e delle comunità.
Le nostre istituzioni pubbliche dovrebbero riconoscere il valore sociale del lavoro in campagna quale elemento determinante per il progresso, civile, sociale ed economico della Sardegna, per la lotta ai cambiamenti climatici, al dissesto idrogeologico del territorio e alla lotta contro gli incendi. Occorre adottare tutte le forme di agevolazione ritenute opportune per rendere conveniente vivere e lavorare la campagna: ormai non appare una bestemmia parlare di Zona Franca Rurale. La Politica Agricola dovrebbe essere incisiva, inoltre, per riequilibrare il rapporto fra la pastorizia legata all’allevamento degli ovini e all’agricoltura, per creare un sistema socio-economico fondato sulla sostenibilità sociale, ambientale ed economica, per selezionare territori omogenei e sostenerli nelle produzioni più confacenti alle caratteristiche dei luoghi e alle loro vocazioni tradizionali.
Infine proviamo ad essere concretamente utopici, ad inventare ciò che non c’è. La politica senza fantasia si ridurrebbe, difatti, ad amministrazione dell’esistente.
Perché non possiamo pensare di proporre alla Regione Sardegna l’istituzione della Libera Università della pastorizia, dell’agricoltura e delle produzioni quale istituto di cultura volto alla formazione permanente del pastore, dell’agricoltore e del trasformatore.
Un’Università che avrebbe sede in ogni campo coltivato, bosco e/o foresta, ovile e stabilimento di trasformazione dei prodotti dell’agricoltura e della pastorizia con una Sede centrale scelta attraverso un bando pubblico in uno dei paesi delle aree interne della Sardegna a maggiore vocazione agricola e/o agropastorale.
In questa Libera Università i pastori, gli agricoltori, gli allevatori, gli imprenditori dei settori della trasformazione avrebbero diritto ad insegnare e frequentare le lezioni in un continuo scambio e in una continua attività di formazione. La frequenza dei corsi, ovviamente, sarebbe facoltativa, ma costituirebbe un elemento premiale ai fini dell’accesso alle risorse regionali, nazionali ed europee per le opere di investimento e per gli interventi relativi agli incentivi del Piano di Sviluppo Rurale.
Queste sono solo piccole idee per rilanciare un dibattito su uno dei temi centrali della nostra terra. Per non arrivare impreparati alla prossima vertenza senza aver provato a costruire un ‘campo’ sul quale giocare una partita decisiva per i paesi e per la Sardegna intera.