Prendendo spunto dall’interessante articolo di Giampiero Vargiu, sui motivi di disuguaglianza tra il Nord e il Mezzogiorno vorrei, se possibile, aggiungere alcune piccole riflessioni.
Quando si parla di difficoltà di sviluppo, credo si cada facilmente nell’errore di soffermarsi su un’analisi meramente economica del problema, tralasciando altri aspetti importanti legati, ad esempio, alla mentalità diffusa nel Meridione, che è figlia di un’imprescindibile influenza esercitata da una precisa eredità storica e culturale.
Tornando indietro nel tempo, in quei luoghi, il processo di modernizzazione è avvenuto in modo anomalo. Ad esso, non sono infatti seguite quelle necessarie trasformazioni culturali e sociali che avrebbero dovuto accompagnarne il compimento.
Innanzitutto, a lungo il Nord Italia ha avuto come unico interesse quello di tenere il Sud in una condizione di dipendenza, per trasformarlo in un mercato di sbocco per i propri prodotti e per avere forza lavoro a basso costo da inserire nelle proprie produzioni. Questo atteggiamento ha rafforzato un rapporto ìmpari che, oltretutto, ha inciso sulla forma mentis dei meridionali, impedendogli di affinare una mentalità imprenditoriale e di comprendere il proprio reale potenziale umano e lavorativo. Non a caso, ancora oggi, molti giovani sono più portati ad affidare la propria tranquillità economica ad altri, che a provare ad essere propositivi, rischiando in prima persona per costruire il proprio futuro nei luoghi in cui sono cresciuti.
Inoltre, il perdurare di un modello agro-pastorale diffuso, caratterizzato dal rifiuto nei confronti di tutto ciò che non è conosciuto, non ha certo agevolato un miglioramento delle condizioni di vita. Oltre a questo, ha rallentato il processo di trasformazione della struttura delle famiglie che, contrariamente a quanto accadeva nel Nord, restavano fortemente ancorate a quella definita “estesa” (comprendente zii, cugini, ecc.). Ciò ha creato le condizioni affinché, nel Mezzogiorno, potesse resistere un modello di solidarietà e collaborazione vissuto solo in ambito familiare, capace di alimentare diffidenza verso l’esterno e in grado di ostacolare ogni forma di collaborazione e associazione con chiunque non facesse parte del proprio “clan” di riferimento.
Proseguendo su un certo tipo di chiusura sociale, può essere interessante anche immaginare come un sentimento come la gelosia, molto diffuso nelle piccole comunità, possa rappresentare un deterrente per la crescita. Mi rendo conto che citare un sentimento come questo, in tale contesto, possa suscitare imbarazzo e contrarietà ma è innegabile che, in realtà limitate come quelle prese in considerazione, nelle quali il successo è spesso associato alla fortuna o, in alcuni casi, al compimento di azioni disoneste, si fatichi ad accettare il fatto che la realizzazione degli altri possa derivare dall’impegno e dall’espressione di sole capacità personali. Questo sentire non fa altro che alimentare un atteggiamento di vero e proprio ostacolo nei confronti di chi, esponendosi in prima persona, tenta di creare qualcosa. Accresce una forma di diffidenza che porta ad avvitarsi in comportamenti sterili che limitano il confronto e lo scambio di idee, fino a spegnere l’entusiasmo per le nuove iniziative e proposte o, nei casi più estremi, a distruggere moralmente chi tenta di emergere o a distruggere fisicamente ciò che è stato costruito.
Aggiungo poi l’annosa questione dell’assistenzialismo. L’iniziale convinzione di non poter avere la possibilità di decidere autonomamente su come improntare il proprio futuro, ha portato a credere che i sussidi fossero non strumenti di ausilio ma veri e propri obbiettivi da raggiungere per assicurarsi una maggiore serenità economica. Denaro elargito dall’alto che ha portato al chiudersi in una profonda pigrizia mentale che, in seguito, ha lasciato il passo al piagnisteo, all’immobilismo e all’incapacità di abbandonare la propria comfort zone.
Quelli citati sono solo alcuni degli aspetti che, se analizzati e presi in considerazione, aiuterebbero ad avere una lettura più aderente a una realtà senz’altro molto complessa. Ma credo che, da quanto scritto, possa già apparire chiaro che per comprendere i motivi dell’esistenza di un’Italia a due velocità, sia necessario conoscere il retroterra storico, culturale e sociale dei luoghi che abitiamo. Valutazioni che prescindono da questo, creano inevitabilmente errori di giudizio che impediscono di formulare soluzioni adeguate che possano aiutare concretamente chi ha bisogno di uscire da una condizione di disagio.
È doveroso parlare di finanziamenti, di risorse, di politiche inadeguate. Ma prima si parli di “mentalità”. Da lì consegue il resto. Tutto il resto, dalle scelte economiche, lavorative a quelle politiche, sia dei singoli che di coloro i quali si trovano nella posizione di poter prendere decisioni per altri.
Ogni fenomeno che coinvolge gli individui deve essere valutato nel suo insieme, in tutte le sue varie sfaccettature. O alle tanto nominate e vituperate “cattedrali nel deserto” industriali, fisiche, si aggiungeranno sempre più dannose cattedrali concettuali, in quel deserto del pensiero in cui tanti di noi si rifugiano per non affrontare le proprie personali responsabilità.
Elisa Dettori