Qualsiasi provvedimento esecutivo è assunto da un organo di governo per modificare lo status quo, per perseguire il cambiamento, possibilmente in meglio. Se un provvedimento non ha effetti sulla situazione esistente, è inutile, se produce cambiamenti, occorre verificare se questi hanno effetti positivi e negativi
Ogni decisione dovrebbe essere orientata da un sistema di valori, da un’idea di società cui la politica dovrebbe tendere. Questo perché, ogni provvedimento ha, in senso assoluto, sempre almeno un effetto positivo e almeno uno negativo. Ecco alcuni esempi:
- La revisione delle aliquote fiscali avvantaggerà qualcuno e svantaggerà qualcun altro. Anche la diminuzione complessiva delle imposte andrà a svantaggio per alcune categorie di reddito.
- Le formule di integrazione del reddito (REI RDC) avvantaggerà i beneficiari e svantaggerà i lavoratori che non ne beneficiano
- L’attribuzione delle borse di studio sul merito piuttosto che sul reddito (o viceversa) andrà a vantaggio di una categoria e a svantaggio dell’altra.
L’obiettivo di ciascun provvedimento è dunque che la somma algebrica degli effetti sia complessivamente positiva; detto in altri termini, gli effetti positivi devono superare quelli negativi.
Le politiche però, spesso sono neutre in termini numerici, e assumono valore positivo o negativo in relazione a quanto sia considerato importante l’effetto positivo per il beneficiario. Facciamo un altro esempio per spiegare questo concetto.
Poniamo che, attraverso un provvedimento, si tolgano 10 euro a una persona e si redistribuiscano i 10 euro tra altre 10 persone. L’effetto complessivo del provvedimento è neutro, matematicamente: (-10+10=0). Però, se chi perde 10 euro ne possiede già 100 e i dieci che ne prendono 1 ciascuno ne possiedono solo 10, allora forse il provvedimento è giusto e positivo, poiché ha effetti redistributivi. Per dire che ha effetti positivi, occorre considerare la redistribuzione del reddito un valore positivo, che più che compensa la penalizzazione del più ricco.
Per valutare le politiche, dunque, occorre comprendere quali sono i valori di riferimento, quali sono gli obiettivi; quale categoria è da avvantaggiare e quali possono sopportarne senza problemi gli svantaggi.
Veniamo al Decreto Dignità, che è il primo provvedimento del Governo Lega-5 Stelle. Tale Decreto è stato ampiamente discusso, da giornali e organi di stampa, per alcuni degli effetti prodotti, ma non per la sua finalità. Bisogna sottolineare, però, che non è stato chiarito dal ministro Di Maio a chi è destinato tale decreto, quali siano gli obiettivi che si prefigge.
Il grande errore del ministro, a mio avviso, è stato quello di non chiarire quali sono i valori attesi degli effetti del Decreto. Si è invece affannato a smentire le notizie frammentarie dei giornali, sugli effetti negativi previsti nelle relazioni tecniche, come se il provvedimento non avesse in assoluto effetti non positivi. Questo, abbiamo detto, è praticamente impossibile: ogni decisione, anche la più buona, contiene delle conseguenze negative. sarebbe stato più importante, invece, spiegare l’importanza degli effetti positivi.
Il problema è più in generale che la politica ha paura a implementare delle politiche che perseguano degli obiettivi netti, che producano veri cambiamenti con effetti definiti; si cerca invece di emanare provvedimenti che non scontentino nessuno, fallendo ovviamente nell’intento, perché per definizione un provvedimento avvantaggia qualcuno e svantaggia altri soggetti, cambiando lo status quo.
Quello che dovrebbe legare la politica alle politiche è invece l’obiettivo, e prima ancora il principio di fondo che spinge chi governa ad assumere le proprie decisioni. Mancando i principi, mancano gli obiettivi e manca la possibilità di valutare un provvedimento in base a un valore atteso.
In altre parole, se l’obiettivo del Decreto Dignità è quello di dare maggiore dignità al lavoratore, non dovrebbe essere valutato (principalmente) sull’aumento o la riduzione dei posti di lavoro, ma sull’effettivo surplus di dignità prodotto. Ma poiché la dignità non è misurabile, e dunque non esiste un obiettivo prefissato, ciascuno è autorizzato a dire la sua opinione.
La politica dunque, parla sempre più come i tecnici, perché non è supportata da un sistema di valori di fondo (nel caso in esame ad esempio favorire le imprese vs. favorire i lavoratori) e supplisce a tale mancanza con considerazioni tecniche e sugli effetti puntuali dei provvedimenti, ignorando gli esiti complessivi.
È il motivo per cui molti credono che i tecnici facciano politica. I tecnici discutono sugli effetti puntuali e li rendono pubblici. Sono i politici che fanno, goffamente, considerazioni tecniche, generando provvedimenti mostruosi e il più delle volte inutili.
Riccardo Scintu
Ha conseguito nel 2010 il Dottorato di Ricerca in Scienza Politica presso l’Università di Bologna, sede di Forlì. Laureato nel 2006 all’Università di Bologna in Scienze dell’Organizzazione e del Governo. Opera in numerosi enti locali della Sardegna come componente esterno di organismi di valutazione delle performance e come consulente sulle tematiche dell’organizzazione e della gestione delle risorse umane.