Sinora qualche critica sommessa era venuta alla diga del Tirso dalle comunità a monte, del Guilcier e del Barigadu alle quali il lago cento anni fa aveva sottratto terre, «le più fertili» dice il luogo comune. Ha cancellato vie di comunicazione antiche, collegamenti fra paesi, traffici sia pure di economie povere, sommerso chiede campestri, e un villaggio, Zuri: ma del dissenso non si è mai fatta storia, letteratura, non fece massa, limitandosi alla contrattazione del prezzo degli espropri che qualche proprietario benestante riusciva a condurre con la Società del Tirso. Non ci furono proteste delle amministrazioni locali, non documenti ufficiali, e non solo un secolo fa alla vigilia della costruzione della diga di Santa Chiara ma nemmeno negli anni '90 del Novecento, meno di trent'anni fa, per la costruzione della nuova diga forse più discutibile ancora della prima (contiene oggi quando va bene l'acqua che poteva stare nel vecchio invaso).
Certo, le popolazioni di queste valli non avevano occhi per piangere, non classi dirigenti locali all'altezza, né ceti sociali evoluti e organizzati. Il comune sul cui territorio venne insediata la diga, Ula Tirso, sconvolto da un cantiere che arrivò a occupare 16.000 operai nei sei anni della costruzione, non ha un archivio comunale, nessun materiale di quegli anni e di quell'opera fatto salvo un pezzo del siluro che gli inglesi lanciarono sulla diga dell'ingegner Kambo nel febbraio del 1941 e che rimase impigliato in una rete subacquea di protezione.
In questi mesi proprio quelle amministrazioni, Ula Tirso e il Barigadu, con l'associazione Paesaggio Gramsci, stanno rievocando i cento anni trascorsi dall'avvio del cantiere di Santa Chiara e delle bonifiche nel Campidano, con un po' più di distacco, consentito anche dalla distanza di tempo, senza far prevalere la lamentazione, il piagnisteo, anzi forse espungendoli del tutto.
E invece un romanzo di successo della stagione è quest'anno in Italia Resto qui (Einaudi, 2018) di Marco Balzano, finalista allo Strega, che racconta una storia ambientata in una valle del Sud Tirolo negli anni della seconda guerra, mentre si alternano il dominio dei fascisti italiani e quello dei nazisti, e grava su due villaggi l'incubo della costruzione di una diga che la Montecatini sta progettando. Finirà con il costruirla nel 1950, nonostante le proteste delle popolazioni, i viaggi in delegazione a Roma, da De Gasperi e dal Papa. I due paesi vennero sommersi, le comunità ricollocate a monte. Da allora dall'acqua del lago di Curon emerge la vetta del campanile di una chiesa, diventato richiamo turistico al centro del paesaggio idroelettrico della Val Venosta, e che ha incuriosito Balzano – pugliese emigrato a Milano, docente di liceo – richiamandolo a interessarsi alla storia, a farci il bel libro amaro, di piccola vicenda locale di ribellione fallita ma che la storia ricorderà come una specie di sopruso, di prepotenza del potere e della tecnologia.
In singolare coincidenza con il libro una compagnia teatrale – la OHT (Office for a Human Theatre) – ha allestito uno spettacolo di fortissima suggestione, Curon/Graun, rappresentato sulle sponde del lago e ora in programma in molte parti d'Europa, a novembre a Roma all'Auditorium Parco della Musica, con l'orchestra che suona Arvo Pärt come in una grande cerimonia funebre silenziosa e cadenzata fra l'altro dal battere della campana.
Solo velleità dell'arte, l'utopismo della letteratura, solo nostalgia, il gusto del rimpianto?
C'entrerà la retorica ambientalista contro le grandi opere, fatta propria e semplificata dai movimenti tipo Cinquestelle in Italia. Ma si è fatta la retorica delle grandi opere, sempre, da parte dei regimi e dei governi.
Ne parlerà sabato pomeriggio a Oristano al convegno di storici sul Centennale (Hospitalis Sancti Antoni, ore 17) Toni Ricciardi, storico delle migrazioni dell'Università di Ginevra, che metterà in relazione le retoriche e le anti-retoriche delle opere pubbliche, con gli spostamenti reali delle persone, le migrazioni interne ed esterne: ci furono sardi nei cantieri di costruzione del Canale di Panama, in quello di Suez, e l'infrastrutturazione da secoli attrae manodopera, costruisce poli e magari nuove marginalità, ridisegna le mappe dei territori.
Ma si vede nei titoli delle altre relazioni che il dibattito degli storici mette in discussione
letture che sembravano acquisite di una fase decisiva del meridionalismo italiano, si interroga sugli esiti di quella modernizzazione della Sardegna cui la diga del Tirso dette inizio, nella combinazione di interventi fra la produzione dell'energia per l'industria manifatturiera e la bonifica delle piane malsane dei Campidani.
Esiti «incerti», in un titolo. «Modernizzazione contraddittoria», in un altro (di Sandro Ruju). In un altro ancora il bilancio si fa sui «costi sociali». Marisa Fois, storica anche lei a Ginevra e originaria di Busachi, parla di «comunità immaginate», e di «trauma», per le sottrazioni e le sommersioni, di «marginalità». La coordinatrice scientifica, la storica Carmela Soru, è l’autrice di un libro che conteneva già nel titolo (Terralba. Una bonifica senza redenzione, Carocci, 2000 ) le prime prese di distanza dalle letture economicistiche più affermate, dalle tesi della modernizzazione, del meridionalismo riuscito.
Piero Bevilacqua che conclude il dibattito, è lo storico dell'età contempranea noto per avere scritto, fra gli altri, Miseria dello sviluppo, (Laterza, 2008), Il grande saccheggio. L'età del capitalismo distruttivo (Laterza, 2001), e La terra è finita. Breve storia dell'ambiente (Laterza, 2006).
Non è la prima volta che differenti posizioni si confrontano sul Novecento e il Mezzogiorno, la modernizzazione impressa dalle classi dirigenti liberali anche alla Sardegna con Nitti e i socialriformisti di Omodeo e Turati, che mobilitarono capitali pubblici e privati – dalla Comit alla Bastogi- tecnocrazia, le burocrazie, come non era mai avvenuto in precedenza;, e in Sardegna masse di lavoratori, braccianti ma forse anche i primi tecnici di un nuovo ceto produttivo.
Lo storico Giangiacomo Ortu proprio quando uscì il libro di Carmela Soru sulla bonifica – nel 2000 – fece il punto sulla ricerca in quella fase: «E' stato indubbiamente merito di Mezzogiorno e modernizzazione, il libro di Giuseppe Barone pubblicato da Einaudi nel 1986 – scriveva – di avere sollecitato anche in Sardegna un nuovo interesse per il processo di mutamento economico e di trasformazione sociale in atto nell’Italia del primo quarto del Novecento».
Era assai esplicito sui limiti delle interpretazioni in auge prima del libro di Barone, e in Sardegna prima del libro di Giampaolo Pisu (La storia delle bonifiche sarde (1919-1931) Franco Angeli, 1995): «Dopo molti anni di studi impiegati a rimasticare lamentosamente, in chiave meridionalistica e gramsciana, i motivi della scarsa industrializzazione e della permanente arretratezza agricola, la scossa provocata da un paradigma forte della modernizzazione, proposto con robusta sintesi e con verve polemica, è stata più che salutare».
Ma non era finita lì. Intanto Carmela Soru metteva in discussione non semplicemente effetti collaterali del progetto idroelettrico, le terre sottratte, i vecchi assetti sociali, ma nientemeno che il modello Arborea – simbolo di quella riuscita, grande mito del fascismo e delle autocelebrazioni di quella comunità.
La storica, docente di Storia contemporanea all'Università di Cagliari, originaria del paese che aveva concesso parte delle sue terre ad Arborea, rievocava il progetto dell’avvocato Felice Porcella, il sindaco socialista che amministrò Terralba dal 1895 al 1913, quando venne eletto in parlamento: era una novità il riconoscimento del peso consistente di un sardo in quel processo secondo molti coloniale, tutto esterno alla Sardegna nei suoi fondamenti politici, progettuali e di potere.
C'ea forse anche un poco di utopia, nell'idea del socialista bissolatiano, che immaginava «l’istruzione e la cultura popolare,» la formazione professionale delle categorie agricole, la municipalizzazione degli asili infantili e la laicità della scuola, assieme all’obiettivo della bonifica, considerata fase conclusiva di uno schema di modernizzazione sociale e territoriale» (Carmela Soru).
Lo sviluppo prese l'altra strada, delle privatizzazioni e dal capitalismo dell’industria idroelettrica, la colonizzazione di Arborea con gli immigrati dal Polesine che il fascismo insediò sia pure abbastanza in continuità con le impostazioni date dai dirigenti della società elettrica e di quella delle bonifiche già da prima degli anni '20.
E' sembrata a molti allora una tesi ardita, sembra ancora oggi una provocazione discutere gli esiti di una politica che trasformò finanche nei suoi connotati la Sardegna, il paesaggio segnato certo dal grande invaso artificiale dell’Omodeo, così poco accettato anche ora dalle popolazioni che lo scorgono al centro del loro territorio, ma con l'altro effetto che sembra appunto indiscutibile della piana acquitrinosa e malarica – fra Oristano, Terralba e Mogoro – finalmente risanata, popolata, coltivata: dove si moriva di malaria ancora nei primi decenni del Novecento più che in ogni altra parte dell’Italia e oggi c’è una delle agricolture più sviluppate del Paese, e sia pure un’énclave, il modello Arborea appunto, sociale ed economico, alti livelli di reddito, sistemazione idraulica, organizzazione aziendale, riordino fondiario.
Ma non c'è area del mondo dove non si contestino le dighe in costruzione o progettate. La produzione di documentari e film sulle grandi dighe (in programma una rassegna a dicembre fra Bidonì, Nughedu Santa Vittoria e Ardauli) raccontano insieme la resistenza strenua di comunità espropriate e i danni ambientali e gli sconvolgimenti che ciascuna opera procura.
Sembra davvero un'altro secolo, quello che scorre nelle immagini di Ermanno Olmi, nei cantieri e nei paesaggi delle dighe alpine che il giovane regista documenta, all'inizio della sua carriera, giovane dipendente della Edison
Umberto Cocco
Umberto Cocco è giornalista professionista, è stato redattore della Nuova Sardegna dal 1989 al 2004 e capo dell'ufficio stampa della Regione dal 2004 al 2009. Sindaco di Sedilo dal 2010 al 2015, è presidente di Paesaggio Gramsci, Associazione per il Parco letterario