Con questo post faccio un parallelismo ardito e opinabile; per questo motivo chiedo al lettore di accettare questa esagerazione e interpretare il testo per quello che vuole essere: l’espressione di una preoccupazione.
Credo che la crisi economica iniziata nel 2008 e culminata in Italia nel 2011, sia di fatto terminata nel 2016. Gli indicatori economici hanno registrato a lungo una crescita non irresistibile, ma costante, una ripresa generale del sistema Italia. Oggi invece viviamo una nuova stagnazione, che rischia di diventare recessione, perché mentre la crisi economica è stata superata, la crisi sociale è ancora in corso e ha dei nuovi risvolti sull’economia.
Il periodo 2008-2016 è stato a mio avviso molto simile a un lungo periodo di guerra per i Paesi europei: durante questo periodo i governi hanno chiesto enormi sacrifici agi Stati più fragili (Grecia in primis, ma anche Italia, Spagna e Portogallo,) promettendo che affrontando per questi patimenti ci si sarebbe rialzati. Esattamente come in un conflitto bellico.
Ora, l’Italia ha vinto quella guerra, è uscita dalla crisi economica, ma questo risultato ha avuto un costo sociale enorme, che si ripercuote su tutto quello che avviene nel Paese, elezioni comprese.
È una situazione, fatte le dovute e necessarie proporzioni, molto simile alla fine della prima guerra mondiale. L’Italia vinse quella guerra, ma ne pagò le conseguenze come se l’avesse persa e affrontò il proprio destino come i Paesi perdenti e sanzionati negli accordi di pace, fino alla degenerazione del regime liberale in regime fascista.
È inutile ricordare cosa furono per l’Italia gli anni successivi alla prima guerra mondiale; un periodo di rivendicazioni, rancori e accesi fuochi nazionalistici, un periodo in cui la propaganda soffiava forte alla ricerca di un nemico da presentare all’immaginario collettivo, un momento storico in cui pubblicamente si manifestava per chiedere a gran voce un cambiamento. Il fascismo nacque da questo humus, ne fu in parte causa ma soprattutto conseguenza.
Il problema è che quando il cambiamento è invocato sull’onda della rabbia e della voglia di rivincita piuttosto che sulla speranza di un futuro migliore, le conseguenze sono spesso regressive e pericolose per i regimi democratici.
So benissimo che la storia non ha necessariamente delle ciclicità e non aiuta a prevedere il futuro, tuttavia ci sono segnali, sempre fatte le dovute doverose proporzioni, allarmanti perché ricordano periodi turbolenti e terribili: i toni esasperati, la frustrazione generale, la creazione del nemico esterno, la povertà crescente; tutti elementi ben presenti nel primo dopoguerra.
Non tornerà il fascismo probabilmente, ma potrebbe crearsi un nuovo sistema meno libero, meno aperto, meno prospero e meno adatto ad affrontare correttamente le sfide della globalizzazione. Chiunque veda questi problemi dovrebbe evitare di ridicolizzare quelli che, legittimamente, esprimono la propria frustrazione.
Dovrebbe capirla, eventualmente spiegare perché le ricette del sovranismo, della chiusura, della contrapposizione all’UE sono la soluzione sbagliata a un’istanza giusta, la richiesta di vivere in un futuro migliore del presente.
Oppure se diciamo che tutti quelli che vogliono un cambiamento sono degli imbecilli, beh la massa di “imbecilli” andrà a gonfiarsi a dismisura e poi non so se questa massa sarà carina con chi la pensa diversamente.
Riccardo Scintu
Ha conseguito nel 2010 il Dottorato di Ricerca in Scienza Politica presso l’Università di Bologna, sede di Forlì. Laureato nel 2006 all’Università di Bologna in Scienze dell’Organizzazione e del Governo. Opera in numerosi enti locali della Sardegna come componente esterno di organismi di valutazione delle performance e come consulente sulle tematiche dell’organizzazione e della gestione delle risorse umane.