Editoriali_ ASviS (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile)
L’insegnante Vecchioni parla di una scuola che non funziona, Sanremo riflette le angosce della precarietà. Per dare ai giovani visione e speranza è necessario far leva su due punti di forza: le donne e la nuova politica. 5/03/21
di Donato Speroni
L’atterraggio non è camminare a terra, ma è l’arte di tornare dal sublime alle cose quotidiane, con molta dolcezza, perché la vita può essere interpretata in due modi: o sei uno che vive sulla terra e ogni tanto fa dei voli oppure sei uno che in genere vola e ogni tanto fa qualche atterraggio.
In molte sue canzoni Roberto Vecchioni ha dialogato col Padreterno. Per esempio, ha preso spunto da un testo di Evgenij Aleksandrovič Evtušenko, “La stazione di Zimà”, dedicato al paesino siberiano dove il poeta nacque, per immaginarsi di arrivarci in treno, chiacchierando con Dio.
Ma vedi, il problema non è che tu ci sia o non ci sia / Il problema è la mia vita quando non sarà più la mia / Confusa in un abbraccio senza fine / Persa nella luce tua, sublime / Per ringraziarti non so di cosa e perché / Lasciami, questo sogno disperato d’esser uomo / Lasciami, questo orgoglio smisurato / Di esser solo un uomo / Perdonami, Signore / Ma io scendo qua / Alla stazione di Zimà.
Questa sua personalissima visione religiosa non ha impedito all’Osservatore Romano di intervistarlo sul suo ultimo libro “Lezioni di volo e di atterraggio” (Einaudi, 2020) nel quale racconta una vita di esperienze come professore di italiano, latino e greco in un liceo classico di Milano. Un libro che ho letto e che ho trovato molto bello, e non solo perché sono un fan di Vecchioni quasi quanto di Giorgio Gaber. Ed è anche molto bella l’intervista del giornale vaticano, del quale riporto solo l’esordio:
L’insegnante è più un mestiere o una vocazione?
In un mondo ideale dovrebbe essere una missione per traghettare anime da un nulla a un qualcosa. Quello della vocazione è un concetto romantico molto bello, ma inevitabilmente l’insegnante sta diventando sempre più un mestiere, perché i precari hanno bisogno di uno stipendio.
Vecchioni racconta le sue passeggiate al Parco di Milano con i suoi ragazzi, li lascia divagare ma poi li riporta ad Atene, alla vera storia della morte di Socrate. O all’origine delle parole, davanti a un piatto di risotto con le rane in una bettola accanto al Naviglio. A uno come me, che ha frequentato lo scientifico, ha fatto venire voglia di studiare il greco. Alla mia età.
Spesso le canzoni contengono messaggi importanti. Anche quelle del Festival di Sanremo, che in più occasioni sono riuscite a riflettere i tempi del mondo.
Nel 1953, quando l’Italia rischiò la guerra con la Yugoslavia (e con gli inglesi che presidiavano la città) per rivendicare Trieste, si cantava “Vola colomba”, dedicata a una donna che
inginocchiata a san Giusto / prega con animo mesto / fa che il mio amore torni ma torni presto.
e anche “Vecchio scarpone” per ammonire che gli Alpini erano pronti a ricominciare a marciare. Fino a “C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones”, che nel 1966 accompagnò la mobilitazione contro la guerra in Vietnam e che fu censurato dalla Rai in occasione di un altro Festival. E si potrebbe continuare.
Quali sono i messaggi che arrivano da Sanremo quest’anno? Allestimento molto curato (ma quanta plastica!), gag divertenti e ospiti importanti, sottolineature “giuste” negli interventi sul palco, dalla necessità di vaccinarsi al sacrificio del personale medico, dalle scarpette rosse contro i femminicidi al dramma della Sla; molto amarcord nelle vecchie e care melodie riproposte; ma le nuove canzoni che cosa ci raccontano, in questa epoca così strana? Non sono certo un critico musicale e neanche le ho sentite tutte, però ho colto alcune costanti: molto amore e molto sesso (anche se pare che gli studiosi ci dicano che in realtà nel lockdown si pratica poco), molta angoscia, precarietà, voglia di “cogliere l’attimo perché del doman non c’è certezza”. Poca attenzione ai mali del mondo e alle sfide del futuro.
Ho l’impressione che questo sia l’atteggiamento prevalente dei giovani. Forse non dei giovanissimi che si mobilitano nei Fridays for Future e neppure di quelli che hanno partecipato all’evento dell’ASviS a loro dedicato perché potessero esprimere la loro opinione sul Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Parliamo invece della grande massa dei “giovani adulti”, del loro atteggiamento verso il futuro, verso quella visione di “futuro sostenibile” che è al centro delle attività dell’Alleanza. Forse il 90 per cento della popolazione giovanile, secondo stime emerse nel nostro evento.
Uso malvolentieri le metafore belliche, ma immagino che questo modo di guardare la vita sia simile all’atteggiamento dei soldati in una lunga guerra. Combattono una battaglia dopo l’altra, oggi la pandemia domani la crisi climatica, poi domani chissà, lucidano le loro armi (i cellulari, i social, per non sentirsi soli), ma sono dominati dal senso della precarietà. Ci sarà un futuro diverso, dopo la “guerra”? Chissà, inutile pensarci. Sembra quasi che siamo noi vecchi a cercare di prefigurarci quel futuro che alla fine non vivremo, a impegnarci sulla base di una visione, a fissare capisaldi come l’Agenda 2030 e gli obiettivi a metà secolo che cominciano a delinearsi nel dibattito politico globale.
Questo non vuol dire che i giovani di oggi siano egoisti, anzi. In milioni sono impegnati nel volontariato, sono generosi, anche con chi in realtà gli sta “rubando il futuro”, scaricando su di loro debiti economici e drammi ambientali e sociali irrisolti. Pochi però partecipano alla vita politica dalla gavetta, pochissimi hanno voglia di impegnarsi nei partiti (ma le sezioni non esistono quasi più, persino i “meetup” locali del Movimento 5 Stelle si sono quasi estinti): meglio esprimere in altre forme, nelle organizzazioni della società civile, la voglia di fare del bene.
Sono certo che anche chi guida le quasi 500 associazioni aderenti e associate all’ASviS, che di quella società civile costituiscono la spina dorsale, concordino che tutto questo non va bene. Senza visione, senza un’ampia partecipazione dei giovani alla vita politica, il Paese non cambierà mai, anche se riponiamo tante speranze in questo governo. Lo stesso Mario Draghi, del resto, ha tenuto a sottolineare l’importanza che alla fine dovrà essere la politica, quella vera, a determinare le sorti del Paese.
Per ottenere questa mobilitazione io al momento vedo due leve importanti.
La prima è costituita dalle donne, e non lo scrivo solo perché la prossima settimana arriva l’8 marzo, con mimose e tutto. In alcuni Paesi le donne vivono in una situazione che sembrava senza speranza: lo ha ricordato Francesco nel suo viaggio in Iraq, menzionando il trattamento a cui erano sottoposte le donne Yazide. Ma si deve parlare anche di mutilazioni genitali, di matrimoni imposti, spesso a bambine, di situazioni nelle quali le donne non hanno neppure sulla carta gli stessi diritti degli uomini. Forse anche in questo triste universo qualcosa sta cambiando, ma molto lentamente.
Ci sono poi situazioni, come l’Italia, nelle quali la parità formale è stata (quasi) raggiunta, magari si sono anche imposti meccanismi tipo “quote rosa”, ma siamo ancora lontani dall’obiettivo della vera parità di genere. Ce lo ricorda in questi giorni un comunicato del Gruppo di lavoro dell’ASviS sull’Obiettivo 5 dell’Agenda 2030. Tocca i temi dell’occupazione, della leadership e della rappresentanza femminile, della prevenzione e del contrasto alla violenza, della salute sessuale e riproduttiva.
Su Futuranetwork abbiamo pubblicato un articolo di Cristina Sivieri Tagliabue, che prendendo spunto da un libro di recente pubblicazione con prefazione di Enrico Giovannini, analizza i meccanismi, compresi quelli statistici, che fanno sì che le donne rischino di restare cittadine di serie B in “Un mondo per soli uomini”. Ma le forme di lotta per l’empowerment femminile sono sempre quelle giuste o talvolta la troppa enfasi sul politically correct rischia di essere controproducente? Questa è la tesi della scrittrice Anna Vicini, che abbiamo pubblicatoaprendo una discussione che ci sembra interessante. Del resto, Futuranetwork a questo serve: discutere oggi le scelte necessarie per realizzare il miglior futuro possibile. E non c’è dubbio che nella costruzione di questo futuro la mobilitazione, nelle forme più efficaci, delle donne, soprattutto delle giovani donne, sia indispensabile.
La seconda leva è l’occasione irripetibile che ci è offerta per cambiare l’Italia utilizzando (anche ma non solo) i fondi del Next Generation Eu. Il nuovo governo ha già marcato diverse differenze di approccio rispetto al precedente, anche se è giusto riservare il giudizio fino alla nuova formulazione del Piano che dovrà essere pronto entro aprile. L’ASviS intanto, fin da gennaio, ha messo al lavoro gli 800 esperti di tutti i suoi Gruppi di lavoro per ricavare dalla precedente stesura una serie di proposte, di metodo e di contenuti, utili per ultimare il processo di elaborazione con l’indispensabile apporto della società civile. Queste proposte sono state sinteticamente anticipate in una audizione al Senato dal presidente dell’ASviS Pierluigi Stefanini e saranno presentate in un evento on line che si terrà il 9 marzo, con la partecipazione di alcuni dei ministri più direttamente impegnati nella elaborazione del Pnrr e di protagonisti della politica europea.
Stefanini illustrerà anche l’analisi che l’Alleanza compie ogni anno sulla Legge di bilancio, che comunque, anche se è cambiato il governo, è la linea tracciata per la spesa pubblica finché altri provvedimenti normativi, se necessario, non ne modifichino la rotta. Infine, illustrerà uno dei principali prodotti dell’attività di ricerca dell’ASviS: l’aggiornamento del confronto tra i Paesi europei nel perseguire gli Obiettivi dell’Agenda 2030.
È evidente che il dibattito politico delle prossime settimane, oltre che sulla lotta alla pandemia e le conseguenze del Covid, sarà concentrato sul Piano di ripresa e resilienza che il governo italiano dovrà presentare alla Commissione europea, sulla base di indicazioni di Bruxelles molto specifiche e impossibili da perseguire col vecchio modo di far politica; serviranno impegni di riforma dettagliati e scadenzati nel tempo. Anche se si registra un consenso formale quasi unanime su questo impegno, quando si entrerà nel dettaglio delle misure che l’Italia dovrà adottare, è facile immaginare che il confronto sarà incandescente. È legittimo: la politica, anche se molti sembrano ignorarlo, non è “tutto un magna magna”, ma la difficile arte di trovare il miglior compromesso per il bene comune. Di questo processo i giovani devono essere beneficiari, come dice il nome stesso del programma straordinario lanciato dalla Commissione e condiviso dal Parlamento europeo. Ma anche soggetti attivi: il volto della nuova Italia non può dipendere solo da tecnici bravi e da partiti litigiosi, ma deve configurarsi anche attraverso la attiva partecipazione delle nuove generazioni. Appunto perché, come diceva Gaber già 50 anni fa
Libertà è partecipazione.