di Michela Ladu
Il pianista-compositore Andrea Scano ci spiega: “L’obiettivo per un musicista dovrebbe essere quello di essere talmente se stesso che per ovvi motivi è “una voce” diversa dalle altre. Per fare ciò è necessario un lungo e difficile lavoro su noi stessi che non tutti hanno voglia o curiosità di fare, ma necessario se sentiamo l’esigenza di suonare in un modo unico e cioè che rappresenti ciò che siamo”.
Com’è nata la tua passione per la musica?
All’età di 5 anni ebbi per la prima volta l’opportunità di ascoltare uno studente del conservatorio che studiava per un esame di pianoforte. Ne rimasi completamente affascinato, chiedendo ai miei genitori di restare lì con lui per ascoltare mentre studiava. Da quel momento non passò un solo giorno in cui io non chiedessi di studiare pianoforte. Una sera mio fratello maggiore studiava “l’inno alla gioia” per l’interrogazione di musica. Ricordo che gli chiesi di insegnarmela e dopo poche ore la sapevo già eseguire. Ci presi gusto al punto che tutte le volte che sentivo una melodia provavo a riprodurla per gioco sullo strumento, scoprendo così la mia naturale predisposizione per la musica. Dopo pochi anni i miei decisero di acquistare una tastiera più grande. È stata di fatto la mia prima maestra, perché aveva un display intelligente grazie al quale potevo riconoscere le note. Già prima della mia prima lezione di piano con un vero maestro, sapevo suonare molte canzoni, anche se la mia tecnica presentava molti difetti. Ricordo con molto affetto il giorno del mio quindicesimo compleanno, quando ricevetti in dono un pianoforte acustico. Dovevo scegliere tra il pianoforte e lo scooter e alla fine la scelta non risultò poi così difficile.
Da dove sei “partito” con la musica e per dove…
Il mio primo vero viaggio musicale è cominciato dopo il liceo. La musica è stata la migliore compagna di viaggio di sempre. È stata come un faro che mi ha illuminato e indicato la strada giusta da percorrere. Durante la stagione estiva ho incontrato una famiglia americana che si è proposta di ospitarmi perché potessi badare ai loro bambini. Così ho deciso di partire a Newport per approfondire la conoscenza della lingua inglese e dedicarmi allo studio della musica, che già avevo cominciato a praticare. Ebbi prima come mentore un’insegnante di pianoforte classico conosciuta grazie al coro Gospel di una chiesa locale e, in seguito, un maestro grazie al quale mi sono appassionato alla musica jazz. Al rientro dagli Stati Uniti, con la valigia piena di sogni e ambizioni, che nel frattempo avevo iniziato a coltivare, avevo le idee ormai chiare riguardo la strada che avrei voluto percorrere. Chi sono stati i tuoi maestri? All’età di 14 anni ebbi la fortuna di conoscere il mio primo vero maestro, americano, William Jefferson Edes, trasferitosi in Sardegna circa vent’anni fa. Grazie a lui ho appreso le basi della musica classica, jazz e pop, facendomi scoprire, passo dopo passo, gli elementi fondamentali della musica, dalla teoria alla pratica. Durante il mio percorso di studi, tanti sono stati i miei maestri. Hanno tutti svolto un ruolo importantissimo per la mia formazione, credendo in me fino alla fine e dandomi la possibilità di conoscere, affermare e far emergere la mia voce musicale. Ho avuto la fortuna di studiare insieme a tanti grandi musicisti come Stefano Onorati, Massimo Morganti, Dado Moroni, Alberto Miodini e infine Kàlmàn Olàh, grazie al quale ho fatto il salto più importante di tutti. È riuscito a trasmettermi gran parte della sua personalità musicale e mi ha aiutato a fare emergere la mia voce, per la composizione, l’arrangiamento e l’improvvisazione.
Il gioco, nell’insegnamento del pianoforte, che ruolo ha?
Tra le scuole di musica a Padova e le scuole in Sardegna, ho avuto la possibilità di conoscere tantissimi allievi e confrontare le differenze tra tutti. Penso che l’apprendimento attraverso il gioco accomuni tante materie, rendendo più semplice e intuitivo il consolidarsi di informazioni altrimenti complesse. È fondamentale fare ricorso all’ironia come strumento per alleggerire gli errori dell’allievo. Parto dal presupposto che la musica sia una materia che richieda molta passione e studio, ma non necessariamente chi comincia un percorso musicale è destinato a diventare un professionista. Perciò sono esigente solo con gli studenti che dimostrano una certa costanza e curiosità. Alcuni studiano la musica come attività ricreativa e, per questo motivo, deve essere un piacere andare a lezione. Non è facile trovare il modo giusto per rendere divertente lo studio di uno strumento così complesso, ma è sicuramente uno dei miei obiettivi principali. Trovo che in questo modo la motivazione aumenti, perché gratificati dal divertimento. Intanto, tra una lezione e l’altra, la passione cresce e le abilità prendono forma, alimentando il bisogno di studiare musica.
Qual è il ricordo musicale a cui sei più legato?
I ricordi più belli che ho sono legati alla musica. Mi ricordo anche di quando andavo a suonare il pianoforte di nascosto durante il primo anno di liceo. I collaboratori scolastici mi dicevano sempre che non potevo stare lì, che non avevo l’autorizzazione, ma il preside chiudeva un occhio perché sapeva quanto fosse importante per me dal momento che non avevo un pianoforte a coda in casa, un sogno che ho sempre avuto. Un altro ricordo risale a quando scelsero “Choices” come miglior brano tra tutti gli studenti del conservatorio e fu selezionato per essere suonato dai prof. durante un Festival musicale. Un altro è quando ho ripetuto un esame di pianoforte per tre volte perché il mio maestro non voleva mettermi 28 ma solo 30 e lode. In quel periodo non comprendevo il senso, ma oggi lo ringrazio molto. Ricordo anche quando la mia prima volta in teatro chiesero il bis. C’erano circa 500 persone che non smettevano di applaudire, ma io non pensavo che stessero chiedendo il bis, così rimasi dietro le quinte. Sapevo che a un concerto quando il pubblico non smette di applaudire è perché sta chiedendo il bis, ma ritrovarsi dall’altra parte per la prima volta è diverso.
Insegnare cosa ti dà?
Monitorare i progressi, seguire i miei allievi nello studio, vederli crescere e migliorare: sono queste le cose che mi rendono felice e mi fanno ringraziare ogni giorno di aver scelto questa come professione nella vita. Insegnare, oltre che suonare, improvvisare e comporre, è tra le attività che danno vero senso alla mia passione. Vedere la mia stessa passione nascere negli occhi dei miei allievi significa aver raggiunto il mio obiettivo come insegnante. Molti non vedono l’ora che arrivi la lezione di piano. Essere insegnanti è uno di quei lavori che permettono di avere un ruolo nella società, aiutare gli altri, regalare un sorriso, educare le nuove generazioni, trasmettere valori. Inoltre un insegnante deve saper offrire un buon metodo di studio, una certa disciplina e il piacere per la materia. In poche parole hai raggiunto davvero l’obiettivo quando l’allievo ama la materia al punto da far correre la sua curiosità e reperire le informazioni da solo. Insegno sempre ad essere maestri di se stessi, capire i propri errori e ascoltarsi mentre si suona, in modo da acquisire una certa padronanza musicale. Da Budapest a Padova e poi alla Sardegna.
Perché sei tornato?
Si tende sempre a considerare l’estero come un posto migliore in cui vivere rispetto al nostro. I cervelli in fuga lo possono confermare. Sicuramente mancano tante cose, ma queste mancanze possiamo colmarle noi giovani con il nostro impegno e la nostra tenacia e fantasia. La creatività può rendere tutto migliore. Penso che vivere all’estero mi abbia aiutato molto a capire che cosa volessi nella vita. Se non avessi viaggiato non avrei mai capito che posto scegliere per vivere. Se non avessi viaggiato mi sarebbe rimasta per sempre la voglia di farlo: la classica domanda “come sarebbe andata se…” A Padova ho fatto esperienza in ben 6 scuole di musica, viaggiavo ogni giorno in una scuola diversa. Avevo trovato la mia dimensione, la pace e la serenità di un lavoro, ma poi ho deciso di rientrare. Ognuno di noi sceglie un luogo in cui vivere, ma penso che il luogo fisico non sia importante quanto il lavoro che si svolge. Ciò che conta veramente è avere gli strumenti per coltivare al massimo la propria passione e quindi il proprio lavoro. È naturale pensare che all’estero ci siano più stimoli e occasioni di conoscere importanti artisti, ma se questo non è presente nel posto in cui vivo, perché non provare a crearlo? Il mio sogno, attraverso la mia scuola di musica, è quello di provare a ricreare l’ambiente che ho vissuto all’estero, anche se in miniatura e più a misura d’uomo. Del resto non tutto ciò che si vive all’estero è positivo. Come si suole dire “tutto il mondo è paese”. Ovunque ci saranno lati positivi e lati negativi. Avrei potuto scegliere di continuare a viaggiare per tutta la vita, fare concerti tutte le sere e prenotare un aereo una volta a settimana. Non l’ho fatto perché penso che il successo non sia sufficiente a giustificare una vita frenetica, dove non c’è più spazio per la vita privata. Se la mattina desidero andare al mare, in campagna o in montagna, qui so che ho la possibilità di farlo. Mi ritengo fortunato ad essere nato e cresciuto qui, perché tutto ciò che fa parte di quest’isola è di grande ispirazione per un musicista. Devo tantissimo alla mia terra. Ma soprattutto, prima di ogni cosa, viene la propria felicità, che è fatta di tante cose, non solo di successo e soddisfazioni economiche, ma anche di salute, famiglia e altri valori. Qual è il tuo rapporto con lo strumento? È stato amore a prima vista sin da quando avevo 5 anni. Ho sempre sentito forte la necessità di dire qualcosa, di descrivere situazioni, emozioni. Ogni volta provo la stessa sensazione di quando suonavo da bambino: un totale trasporto all’interno del quale mi sento me stesso, completamente libero di esprimere i miei sentimenti. Ricordo con affetto i pomeriggi che dedicavo alla composizione estemporanea sottoforma di gioco, all’età di dieci anni. Un mio amico descriveva una situazione a parole e io provavo a suonarla, trovando le note più giuste per rappresentarla. Il bisogno di esprimere la mia personalità attraverso la musica è qualcosa della quale non potrò mai fare a meno. Aspettando il tuo album qual è il brano che maggiormente ti rappresenta? “Choices” sicuramente, è uno dei lavori che mi piace di più, tra i primi che ho composto. Mi piace così tanto che ho realizzato tre arrangiamenti per vari tipi di ensemble. Gli altri sono ugualmente frutto di un lungo lavoro e di importanti collaborazioni artistiche, come Winand Gabor, Kalman Olah Jr, Elemer Balàzs e altri grandi musicisti.
Cosa insegni veramente?
L’insegnamento prevede che si introducano gli allievi all’essenza jazzistica della libertà, dell’improvvisazione e della creatività. Il musicista novizio deve acquisire il linguaggio ma poi cercare di ignorarlo per quindi suonare le proprie melodie. Quando qualcuno ha imparato i noti elementi stilistici, è difficile staccarsene. In tal caso, una buona conversazione aiuta più del pianoforte specifico. La maggior parte dei musicisti è davvero aperta e reagisce in modo creativo agli altri, è come comunicare in una qualsiasi lingua, più elementi si conoscono e più si interagisce, più la comunicazione è interessante e stimolante. Pensando alla musica, qual è la riflessione nella quale ti riconosci maggiormente? Il primo pensiero che mi viene in mente è un discorso di Marco Tamburini, grande Maestro di musica e di vita. “Ascoltate e conoscete tutta la musica, abbattete le barriere, pensate a quello che vi fa star bene e soprattutto provate a scrivere musica. Imparate a dialogare con il vostro strumento, solo così la musica che c’è in voi potrà uscire. Noi suoniamo quello che siamo: la musica tira fuori quello che siamo nel bene e nel male ed è proprio da questo che si deve lavorare per migliorare.”
Che ruolo gioca l’ispirazione nella creazione di nuove idee musicali? L’ispirazione deriva da una serie di stimoli che si ricevono dall’esterno, di qualsiasi natura siano, ecco perché un individuo raggiunge un certo livello in ciò che fa, solo se ha contemporaneamente una maturazione come essere umano. Quando si ricevono stimoli e abbiamo le capacità di elaborarli ecco che la nostra rielaborazione crea qualcosa di nuovo. Il livello di cultura, preparazione e lavoro su noi stessi permette di creare un qualcosa di diverso. L’obiettivo per un musicista dovrebbe essere quello di essere talmente se stesso che per ovvi motivi è “una voce” diversa dalle altre. Per fare ciò è necessario un lungo e difficile lavoro su noi stessi che non tutti hanno voglia o curiosità di fare, ma necessario se sentiamo l’esigenza di suonare in un modo unico e cioè che rappresenti ciò che siamo.