La diatriba che accompagna le richieste di autonomia differenziata per le Regioni a statuto ordinario ( Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna ), fa velo, per come è stata impostata, ad alcuni angoli bui nei quali è razionalmente lecito ritenere siano stati riposti i veri obiettivi.
In realtà, a mio avviso ( si veda anche nel “Il Foglio” del 2/5/2019 la dettagliata analisi di Rocco Todaro ), il campo nel quale può e deve svolgersi l’azione è chiaramente ed in modo non equivoco delineato dalla Carta Costituzionale, nella correlazione tra art.3 comma 2° e art.119 commi 2° e 4°:
° Art.3 comma 2° – delinea l’orizzonte dello stato sociale, nel cui ambito la repubblica si premura di rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Questo presuppone peraltro che nessuna azione ( compresa l’autonomia differenziata ) possa essere realizzata contraddicendo il principio che tenda a limitare l’apparato pubblico a disporre delle risorse economiche necessarie ad attuare una redistribuzione a favore di chi sia rimasto più indietro nell’ambito del territorio della Repubblica.
Le prime coerenti risposte attuative di questi principi sono infatti individuabili nei commi 2° e 4° dell’art.119, che delineano la strumentazione funzionalmente utile per l’attuazione dei principi esposti nel comma 2° dell’art.3:
° Art. 119 comma 2° – “»La legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante”; comma 4° – “Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’esercizio dei diritti alla persona, e per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali a favore di Comuni, Provincie, Città metropolitane e Regioni”.
Ne discende coerentemente che la previsione dell’art.116 comma 3° che prevede la possibilità di attribuire ” forme e condizioni particolari di autonomia” alle Regioni a statuto ordinario ( c.d. Regionalismo differenziato ), cui fanno riferimento le proposte di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, può e deve fare luogo ad un incremento di risorse economiche esclusivamente limitate a quelle che in precedenza erano utilizzate dall’Amministrazione Centrale per lo svolgimento delle attività trasferite.
Non altro. Non a qualche percentuale predefinita, una volta per tutte, dei tributi erariali riferibili al loro territorio ( primo angolo buio ). Un approccio siffatto renderebbe del tutto impraticabile l’impalcatura costituzionale dell’art.3 comma 2° e art.119 commi 2° e 4° con cui si individuano i relativi strumenti funzionali.
Cominciamo con il sottolineare come l’Autonomia differenziale sia un processo “in Itinere” tutto da costruire nell’alveo dei principi costituzionali e senza riserve mentali ed obiettivi più o meno reconditi e richiede, a mio avviso, il rispetto di alcuni passaggi fondamentali.
Intanto è opportuno sgombrare il campo da alcune convinzioni che sono state portate a sostegno dei “referendum” del 2017 da Lombardia e Veneto su un supposto “residuo fiscale” che avvantaggerebbe le Regioni del Sud rispetto alle Regioni del Nord ( secondo angolo buio ). In pillole il Sud riceverebbe 50 miliardi in più di trasferimenti rispetto a quanto versa come gettito fiscale.
Argomento pretestuoso, come è stato puntualmente sottolineato ( si veda “Reddito di cittadinanza” S.Feltri editrice PF ), per almeno due ragioni:
1 – tecnica, perché le imposte non le pagano le Regioni ma i singoli cittadini, ed è ovvio che se al Nord ci sono più cittadini con un reddito più elevato è consequenziale che il gettito sarà maggiore, da un lato, e, dall’altro lato, è altresì ovvio che al Sud ci sarà per la stessa ragione, ma opposta, un maggior fabbisogno derivante da una maggiore domanda di prestazioni sociali ed assistenziali, perché la quota di cittadini bisognosi è maggiore. Sottolinea infatti lo SVIMEZ che questo squilibrio “»è ineliminabile a meno di non ledere del tutto i principi fondamentali della Costituzione, la tutela dei servizi e livelli essenziali di prestazioni a tutti i cittadini ovunque residenti, che peraltro al Sud sono carenti anche per un’insufficiente dotazione di risorse delle amministrazioni”;
2 – distorsione allocativa, quest’ultima annotazione ( quella sulla insufficiente dotazione di risorse ) evidenzia peraltro una verità ( terzo angolo buio ) che si è teso e si tende a rimuovere nel Nord nel denunciare le inefficienze del Sud. È infatti principio consolidato di politica economica che gli investimenti pubblici dovrebbero essere redistribuiti sul territorio nazionale in base alla popolazione. Poiché nel Sud risiede il 34% della popolazione, dovrebbe avere il 34% degli investimenti pubblici. Ma così non è. I dati ci dicono che tra il 2002 ed il 2015 gli investimenti al Sud sono passati da un già basso 25,9% al 19,6% e la differenza è rifluita al Nord. Il che ha fatto si che gli investimenti rivenienti dai Fondi Europei, che dovrebbero essere “aggiuntivi” rispetto a quelli nazionali sono diventati, come si è visto, per larga quota “sostitutivi” di quelli nazionali e a tutto vantaggio del Nord.
Si vuole ora proseguire con un approccio “furbo” anche all’autonomia differenziata?
Per evitare distorsioni e rispetto dell’impalcatura costituzionale, credo che sotto il profilo finanziario ( da cui dipendono poi largamente gli effetti economico-sociali ), si debba convenire che i passaggi prioritari siano:
a – definizione dei “livelli essenziali delle prestazioni”, cioè i livelli che devono essere offerti in modo uniforme su tutto il territorio nazionale su Sanità, Assistenza, Istruzione, Trasporto pubblico locale e altri servizi individuati tra Stato e Regioni;
b – definizione ed individuazione dei “fabbisogni standard”, cioè dei costi di copertura dei servizi individuati sub “a”, effettuati in condizioni di efficienza operativa.
Ne discende che ogni eccedenza di gettito fiscale rispetto alla “spesa standard” rifluisce nella fiscalità generale di competenza statale e servirà in parte alla copertura per le Regioni meno ricche che con le loro tasse non riescono a coprire il costo delle stesse “prestazioni essenziali”.
Questo è il sistema di perequazione previsto dalla stessa Costituzione. Ogni altro approccio metterebbe in dubbio l’esistenza di unitarietà dello Stato. I servizi aggiuntivi che una Regione intende offrire troveranno copertura o in maggiori/aumento di tasse locali o in risparmi di altre spese.
A me non sembra che il rischioso approccio attuale si muova in questa direzione, cioè secondo un approccio che lo stesso UPB – Ufficio Parlamentare di Bilancio chiama correttamente “cooperativo”, in quanto non pregiudica la solidarietà e l’unità nazionale.
Se questa strada non sarà perseguita il rischio di una “perequazione a contrario” è dietro l’angolo, a tutto danno delle Regioni che non riescono a produrre un gettito fiscale sufficiente a coprire le spese e in aperta contraddizione con l’impalcatura costituzionale.
È augurabile e si confida che il Presidente della Repubblica, garante costituzionale, rifiuti l’apposizione della firma a leggi palesemente incostituzionali e platealmente secessionistiche sotto il profilo finanziario, lesive dell’unità nazionale e dei diritti civili.
Gianni Pernarella
Laurea in Giurisprudenza conseguita a Pisa e studi post laurea in Economia. Dipendente del Banco di sardegna dal 1973 al 2003. Dopo esperienza pluriennale di filiale, assume nel 1990 ruoli di responsabilità nella struttura centrale “Organizzazione e Sistemi Informativi” dove, in veste di funzionario capo progetto, ha gestito oltre 10 progetti organizzativi e relativi a sistemi informativi. Collaboratore per oltre 6 anni del SIL – PTO di Oristano; ha scritto quattro libri sulla materia del credito e dell'economia provinciale oristanese relativa all'artigianato.