È passato un mese dal lockdown (confinamento) italiano. Per contrastare la crescente epidemia di Covid-19, il Presidente del Consiglio Conte, ha vietato ogni tipo di spostamento all'interno del territorio nazionale, concesso solo in casi di estrema necessità, legati a esigenze di lavoro, salute o emergenze familiari. Una misura inasprita pochi giorni dopo, con la chiusura di tutte le attività commerciali e produttive ritenute non essenziali.

Una quarantena resa necessaria dal crescente dilagare del virus, benché in zone in qualche modo circoscritte. Utile, per tentare di arginare le possibilità di una sua ulteriore diffusione in ogni angolo del Paese.

Una soluzione estrema di cui, in realtà, a fatica vediamo i risultati ma della quale possiamo ben osservare le conseguenze psicologiche, ossia diffusi problemi di ansia e stress.

Ognuno di noi in queste interminabili settimane, sulla base dello stile di vita che conduceva e delle personali esigenze, ha maturato le proprie motivazioni sul perché mal sopporta tale condizione.

Alcune ci accomunano. Per quanto una persona sia abituata a una vita sedentaria o sociale poco attiva, c’è una notevole differenza tra il non aprire la porta di casa perché lo si è deciso e non farlo perché, invece, qualcun altro ce lo impone. Si ha inoltre quella terribile sensazione di vita sospesa tra progetti rinviati o tristemente perduti per sempre. In quest’ultimo caso, penso ad esempio a chi aveva pianificato a fatica qualche investimento importante per avviare un'attività che, con molta probabilità, non vedrà più la luce, perché le contingenze sono differenti e il momento storico ed economico che stiamo vivendo – peraltro in continua evoluzione poco positiva – non regala certo fiducia nel futuro.

Altre motivazioni, ci distanziano. Mai come in questi tempi, ho percepito la disparità tra ceti sociali, che si ripercuote sul modo diverso di affrontare le sfide odierne e quelle che verranno. O quella di maturità e approccio alla vita tra chi è stato già duramente colpito dagli eventi in passato e chi ha visto scorrere i propri anni in maniera più serena. Mai come in questi tempi, ho sentito e letto ovunque parole ripetute come dei mantra: empatia, solidarietà, collaborazione. Parole che si rivelano vuote, appena si realizza che chi non vive determinate situazioni e non ha mai praticato l’esercizio dell’ascolto dell’altro, cercando di comprenderne le difficoltà, non può certo farlo ora, nonostante l’impegno mostrato. O, meglio, esibito.

Differenze che emergono in diversi contesti, come quando ci si confronta sul grande dilemma che affligge l’intera nostra società, in questi ultimi giorni: riaprire le attività commerciali e produttive, consentendo la libera circolazione delle persone e il ritorno a una vita il più possibile normale, oppure no?

Su questo punto è nata una divisione in fazioni tra chi, potendosi concedere di farsi divorare dalla paura di contrarre il virus, si mostra contrario, rifiutando ogni genere di riavvio e chi, invece, non potendoselo permettere per tanti motivi, freme nella legittima speranza di poter iniziare a vedere una luce in fondo al tunnel.

Ho potuto constatare come – in linea generale, affinché le rare eccezioni non si sentano colpite – chi non ha premura di ripartire, abbia una vita più o meno agiata condotta in case più o meno spaziose, magari dotate di balconi e giardini che consentono di prendere un po’ di sole, di consumare qualche pasto all’aria aperta, seppur nel pieno rispetto delle regole imposte del Governo e di pensare, con una discreta serenità, ai grandi mutamenti che vive.

Chi sente maggiormente la pressione di un ritorno alla normalità il prima possibile, vive in piccoli appartamenti, spesso abitati da un numero di persone che rendono la condivisione degli spazi un vero inferno. Nessuna privacy, nessun angolo da dedicare a sé, fosse anche per ritagliarsi un momento di solitudine in cui abbandonarsi a una profonda riflessione e comprensione di quanto accade.

Già questo, crea un gap notevole tra chi può permettersi di razionalizzare e metabolizzare nel modo migliore l’impatto che il dannato virus ha sulla propria esistenza, coltivando una mirabile pazienza ascetica e chi, invece, si ritrova a scattare come una molla per un nonnulla, date le poche possibilità di respiro che pochi metri quadri concedono, soprattutto se sovraffollati.

Esistono tante situazioni diverse che accentuano le differenze e che, oggi, colpiscono più che mai le persone più fragili e quelle che le sanno ascoltare.

Chi ha avuto la fortuna di avere figli sani e forti, dimentica il mondo dei disabili, già di per sé bistrattato, ora rimosso. Ci sono genitori abbandonati a loro stessi, in balìa degli eventi, privati di ogni forma di assistenza, cui spesso si aggiunge la mancanza di umana comprensione da parte delle comunità in cui vivono che, nel frattempo, fanno partire sommosse popolari affinché gli sia concesso di portare fuori il cane o di andare a fare la corsetta sui viali ma, di tutto il resto, non si curano.

Ci sono delle mamme sole, con figli minori a carico, costrette a lavorare da casa o in qualche ufficio rimasto aperto, che non hanno nessun tipo di supporto. Nei casi più fortunati, riescono comunque a lasciare i figli ai nonni, non senza dover subire lo sdegno di chi le considera delle incoscienti perché i bambini sono potenziali vettori asintomatici del virus mentre gli anziani, i sintomi, in linea di massima li manifestano nel modo peggiore.

Ci sono tante famiglie che già prima della pandemia, vivevano l’incubo del confinamento dei propri cari, dentro gli ospedali. Relegati in una stanza, magari isolata e asettica, la cui unica finestra sul mondo è un vetro attraverso il quale vedere un parente o un amico.

Anche queste persone sono state, da molti, dimenticate. Quando oggi vi crogiolate nella tristezza, pensando agli aperitivi mancati, che nessuno potrà mai restituirvi, ricordate che c’è chi si tormenta nel dolore vero perché, in una situazione d’emergenza come questa, il poco di prima è diventato niente. Nei casi più gravi, chi ha subìto danni cerebrali, cui sono seguite paralisi, ma è comunque cosciente e reattivo, non ha neanche la possibilità di chiamare con un cellulare. Ricordatelo tra una telefonata e l’altra a chi volete bene e sentitevi fortunati solo perché potete farlo, anziché lamentarvi in videoconferenza del banchetto pasquale che salta.

Ci sono malati, anche oncologici, con interventi e cure sospese.

Donne e minori che subiscono violenza, costretti a stare in casa con i loro aguzzini e rimasti senza voce.

Anziani lasciati soli nelle case di riposo o nelle proprie abitazioni.

Famiglie prive di sostentamento, aiutate con pochi spiccioli. Altre che percepiranno una cassa integrazione che, soprattutto nelle città, può costringere comunque alla fame. O quasi.

Ci sono tante situazioni terribili di cui tener conto, che dobbiamo imparare ad ascoltare con il cuore, anziché con le sole orecchie e che, egoisticamente, se siamo persone fortunate, possono anche aiutarci a capire che possiamo sopravvivere a tutto questo, mantenendo un buon equilibrio mentale.

C’è cascato il mondo addosso, è vero. Ad alcuni, però, è cascato addosso l’intero universo. Ricordiamolo sempre, nelle settimane che verranno.

Impariamo a dare il giusto valore alle cose e agli eventi. Alla vita.

 

Elisa