di Elisa Dettori
Siamo abituati a ricondurre la parola “marketing” alla semplice pubblicità che aiuta le aziende a migliorare il proprio fatturato.
In realtà, il marketing è una complessa strategia capace di orientare le scelte dei consumatori, grazie a studi e analisi precise che anticipano le loro esigenze e, nei casi più virtuosi, ne creano di nuove e inaspettate.
Fin qui, niente di eccezionale. Poter scegliere tra più prodotti e servizi, in base alle proprie necessità e possibilità economiche, è un diritto di ciascun individuo.
La questione cambia quando grandi aziende utilizzano una particolare strategia di marketing, il woke washing, che consiste nella ricerca di un aumento dei profitti, attraverso la strumentalizzazione di temi sociali importanti e di attualità, come una malattia (ad esempio il cancro al seno), l’ambiente, i diritti civili, la disabilità e così via.
Ognuno di noi ha un sistema di valori, delle sensibilità, che possono essere impunemente mercificate da aziende senza scrupoli, che trasformano la solidarietà in un business incredibile.
Tra i metodi più discussi e noti, operanti secondo questa modalità, troviamo il Greenwashing, che associa i marchi a tutto ciò che è legato al tema dell’ecologia e dell’ambiente o il Pinkwashing, che associa i marchi al tema dell’emancipazione femminile.
Proprio su quest’ultimo vorrei soffermarmi. Oggi si lega a diverse cause legate al mondo femminile ma, in origine, l’espressione pinkwashing – nata nei primissimi anni ‘90 – è stata coniata per indicare quelle campagne che, attraverso l’applicazione qua e là del famoso nastro rosa (simbolo della lotta contro il cancro al seno) e il tingere prodotti vari di quello stesso colore, hanno sfruttato un tema altamente sensibile, una malattia, principalmente a scopo di lucro.
I prodotti color di rosa piacciono e incrementano le vendite, come tutto ciò che la nostra mente considera in buona fede “etico e giusto”. E poco importa se della cifra totale, quella destinata alla ricerca è una parte irrisoria, di pochissimi centesimi. Poco importa se le stesse aziende che promuovono questo tipo di raccolte fondi, nei loro processi produttivi forse utilizzano sostanze inquinanti e cancerogene. Sono questioni che nessuno di noi di solito approfondisce, perché di fronte alla possibilità di compiere una buona azione – con uno sforzo davvero minimo – ci si sente più buoni, sollevati per aver fatto la nostra parte.
In realtà, la solidarietà si riduce a esca per i compratori che non sapranno dire di no. A nessuno piace essere giudicato perché non sostiene e alimenta quello che tutti riconoscono come “sistema buono”. Nessuno vuole apparire una persona orribile, che non aiuta chi ha bisogno.
Sarà però lecito chiedersi almeno dove vadano a finire i soldi incassati e come vengano impiegati. Spesso in queste raccolte c’è poca trasparenza.
Così come sarà altrettanto lecito chiedersi perché si continui ad alimentare il settore della ricerca e non quello della prevenzione. Non sappiamo quanto tempo occorrerà per trovare cure universalmente efficaci. Non sappiamo nemmeno se sia possibile che ciò accada. Sappiamo però che, spesso, scoprire un tumore per tempo, può salvare la vita.
Perché non utilizziamo il fiocco rosa o altri metodi per finanziare un sistema efficace di prevenzione? È fondamentale cercare cure sempre più innovative ma, nel contempo, non possiamo essere costrette ad aspettare mesi in lista d’attesa per una visita o pagarla fino a 150/200 euro presso un privato. Un’ipocrisia insostenibile, quando ci dicono che dobbiamo fare controlli periodici, senza valutare gli ostacoli che incontriamo.
Ma è esattamente questo che fa il washing, distrae dalle necessità reali e focalizza l’attenzione su ciò che è più commerciabile, di forte impatto emotivo, non su ciò che potrebbe essere più utile e salvifico, almeno nell’immediato.
Nel bene e nel male, c’è comunque dietro un lavoro utile di sensibilizzazione, è vero. Ma non è abbastanza. Non è abbastanza sentire di avere la coscienza pulita, per essersi limitati a comprare un prodotto che devolve pochi spiccioli alla ricerca o, peggio ancora, per aver pubblicato un post che parla dell’argomento o aver messo un fiocco nell’immagine del profilo social.
Ottobre è il mese dedicato alla lotta contro il cancro al seno, mancano poche settimane. Prima di appuntare al petto il Fiocco Rosa, guardate il documentario allegato in fondo all’articolo, intitolato Pink Ribbons, Inc., è illuminante.
Se poi vi sentite comunque di farlo, va bene. Ma almeno avrete fatto una scelta consapevole. E, se potete, anziché comprare prodotti studiati ad hoc per l’occasione e proposti da qualche multinazionale, mettete da parte la stessa cifra, secondo le vostre possibilità, e donatela a qualche associazione locale che si occupa davvero di aiutare le donne sul territorio, che acquista attrezzature utili, dà supporto psicologico. Perlomeno avrete il vantaggio di avere persone di riferimento, che rispondono in prima persona delle raccolte che promuovono, alle quali potete dare fiducia e sulle quali è più facile avere riscontri diretti, senza alimentare il “mercato del rosa”, più utile al profitto che alla scienza.
La salute è un diritto fondamentale. Sappiate scegliere come difenderlo.
Di seguito il link del Docufilm Pink Ribbons Inc. (Nastri Rosa SpA in italiano)