Sulla “Flat tax” sono presenti nel sito dell’Associazione almeno 7 Post, oltre ai 2 recenti di Giampiero Vargiu.
La nostra analisi, quale chiosa a sostegno delle molte osservazioni critiche dei fatti attuali relativi al Governo giallo – verde su cui si è intrattenuto nei due Post Giampiero Vargiu, cerca di approfondire il contesto “economico – culturale” in cui si muovono alcune scelte politiche, in particolare la “Flat tax” e, si voglia o no, le conseguenze economiche e sociali che queste scelte trascinano, andando oltre l’apparente “appeal” con cui vengono propagandate e vendute ai cittadini.
Flat tax: origini e sviluppo, in pillole –
La tassa piatta ( flat tax ), cioè la tassa unica ad aliquota costante è stata in realtà applicata sino al XIX secolo, sino all’avvento del “socialismo” ed ai contributi dei due economisti D.Ricardo e K. Marx, le cui critiche al sistema ed all’accumulazione della ricchezza capitalistica contribuirono ad una diversa visione dell’imposta in senso “progressivo”, quale modalità di contrasto morale e sociale all’accumulazione della ricchezza ed a favore di una maggiore equità fiscale che, attraverso la progressività delle tasse sul reddito, realizza un aumento dell’imposizione più che proporzionale quanto più è alto il reddito.
Influenze che hanno portato anche la Costituzione Italiana a sposare il principio della “progressività” fiscale.
L’economista T.Piketty segnala – come poi le sue analisi statistiche ed interpretative dimostrano ( Il Capitale nel XXI secolo del 2013 ) – quanto il “romanzo” del XIX secolo, in particolare J.Austen per l’Inghilterra e H. de Balzac per la Francia, abbondi di accurate informazioni sui livelli di vita e di ricchezza dei differenti gruppi sociali e, soprattutto “»sulla struttura profonda delle disuguaglianze, sulle loro motivazioni e implicazioni nell’esistenza di ciascun individuo [evidenziando]»una conoscenza profonda della gerarchia dei patrimoni in vigore alla loro epoca»ne ripercorrono le implicazioni con una verità e potenza evocativa che nessuna statistica, nessuna dotta analisi, saprebbe eguagliare ” ( pagg. 12 – 13 ).
Neoliberismo, “Flat tax” e “Trikle down” –
Considerato che gli egoismi, l’accumulazione di ricchezze e l’esaltazione dell’individualismo sono duri a morire, i principi del liberismo dell’Ottocento e le sue idee, in chiave moderna, sono state portate avanti in campo accademico, negli anni ’80, dall’economista M. Friedman – considerato pertanto il padre del “Neoliberismo” – e dai suoi “Chicago Boys”, diventando nel tempo egemoni, influenzando e facendo breccia, talora non troppo parziale, anche nelle politiche “latu sensu” di sinistra: nei Tony Blair, Bill Clinton, ma anche Massimo D’Alema, vent’anni prima dei Matteo Renzi, con programmi, talora anche ampi, di deregolamentazioni e privatizzazioni degli ultimo decenni.
Anche di recente ( 2016 ) J.D. Ostry, P. Lanugani e D. Furceri, confermando precedenti analisi critiche, hanno sottolineato che il “Neoliberismo” è una teoria economica che poggia su due assiomi: 1 – la competizione è sempre una cosa positiva e deve essere favorita tramite deregolamentazione e apertura al commercio internazionale; 2 – lo Stato deve avere nell’economia il ruolo più ridotto possibile: quindi bisogna privatizzare, tagliare la spesa, ridurre il debito pubblico ed il deficit ( in netto contrasto con le teorie di J.M. Keynes ).
Una visione riduttiva, dove non c’è spazio per il concetto di “Società” e che ha consentito a M.Thatcer di sostenere ” Non esiste una cosa chiamata Società, ci sono solo individui e famiglie “.
Sotto il profilo economico già A.Smith nell’Ottocento aveva sostenuto l’esistenza di una “Mano invisibile” equilibratrice del mercato, per cui la ricerca egoistica dell’interesse individuale gioverebbe all’intera società. Concetti di fondo recuperati in buona sostanza dal “Neoliberismo” che, in chiave moderna, sostiene la teoria del “Trikle down”, di cui la “Flat tax” può considerarsi strumento funzionale, che associa l’aumento del PIL – Prodotto Interno Lordo al contemporaneo ( ?! ) miglioramento della condizione economica dell’intera popolazione.
Il “Trikle down” ( gocciolamento dall’alto verso il basso ), o teoria della goccia, è un’idea di sviluppo economico neoliberista basata sull’assunto secondo il quale i benefici economici elargiti ai ceti abbienti, cioè ai più ricchi, attraverso significativi alleggerimenti dell’imposizione fiscale ( segnatamente “flat tax” ), favoriscono anche per “gocciolamento” ed “ipso facto” ( !? ), cioè di per se, l’intera società e quindi le classi meno abbienti.
R. Hale e A. Rebushka, della Stanford University, recuperano il concetto di “Flat tax” per spiegarne i (supposti ) vantaggi della proporzionalità rispetto alla progressività: semplicità, economicità, tendenza a creare incentivi virtuosi per l’economia. Una vera panacea !!
Peccato che la teoria del “Trikle down” trascuri del tutto gli eventuali squilibri nella distribuzione dei redditi e della ricchezza e la necessità di abbattimento dei fenomeni di disoccupazione, povertà e livello di disuguaglianza, quali effetti coesistenti anche a fronte di una crescita elevata dell’economia: altro che contemporaneo miglioramento della condizione economica dell’intera popolazione. Si tratta invece di squilibri che sono frutti amari accresciuti, non considerati ne contrastati dalla teoria neoliberista.
Così, ad esempio, è stata la deregolamentazione bancaria di matrice neoliberista di Clinton ad essere considerata, da tanti economisti e studi relativi, tra le principali cause della crisi finanziaria del 2008, che si è diffusa come un’infezione in Europa ( anche attraverso i c.d. “derivati” ) e nel mondo.
T. Piketty nel suo citato lavoro del 2013 ” Il Capitale nel XXI secolo” afferma e dimostra che il mercato, lasciato a se stesso, tende inevitabilmente a perpetuare ed accentuare le disuguaglianze. Ovviamente non c’è nulla di male nella concorrenza, nel mercato o nel commercio internazionale, purché questi strumenti vengano utilizzati e producano i loro effetti nelle giuste condizioni e nei modi corretti. Questo ci ricorda come sia la “Politica” che deve stabilire il recinto ( cioè le regole ) entro cui si deve svolgere la competizione economica ed il suo sviluppo, i cui benefici devono andare ad equilibrato vantaggio dei diritti, delle condizioni economiche ed occupazionali dei governati.
Per contro, ad esempio, è il frutto predatorio dei concetti del neoliberismo l’alterazione intervenuta nella dinamica dell’investimento a vantaggio della finanza e a svantaggio dell’economia reale, sostiene l’economista A.B. Atkinson, tra i più autorevoli studiosi di diseguaglianze e povertà. Un rischio assai sottovalutato in Europa nel 1992 all’avvio della libera circolazione dei capitali, non accompagnata da adeguate scelte politiche legislative di regolamento e controllo. Tutti questi aspetti chiamano in causa il ruolo della “politica” e dei “governanti”.
Scelte politiche –
Partendo dall’osservazione che le “disuguaglianze” non sono un destino naturale ed ineluttabile ma incapsulato in economie e società costituite socialmente: vanno considerate frutto di ” scelte ( o non scelte ) politiche “. A. B. Atkinson sostiene infatti e dimostra che apprendendo dal passato, occorre porsi due domande: 1 – perché la disuguaglianza è caduta nel secondo dopoguerra in Europa?; 2 – perché il trend egualitario è stato rovesciato in uno disugualitario a partire dal 1980?
Le risposte, documentate dall’analisi, dicono che i fattori maggiormente esplicativi del periodo di riduzione delle disuguaglianze sono frutto di “scelte politiche” riconducibili “[ Atkinson, risposta alla domanda 1 ]… [ al ] welfare state e l’espansione dei trasferimenti pubblici, la crescita della quota dei salari sul valore aggiunto dovuto alla forza dei Sindacati, la ridotta concentrazione della ricchezza personale, la contrazione della dispersione salariale come risultato di interventi legislativi dei governi e della contrattazione collettiva sindacale “.
Politiche di segno opposto ( in logica neoliberista ) sono state ” [ Atkinson, risposta alla domanda 2 ] » le ragioni che hanno condotto a un termine il processo di equalizzazione, rovesciando nel loro contrario i fattori equalizzanti “, cioè: tagli al welfare state, declino della quota salari sul valore aggiunto ( anche per effetto del tasso di disoccupazione, che dalla fine degli anni ’70 è stato vertiginoso ), crescente ampliamento dei differenziali salariali – che vede nei Paesi sviluppati dell’OCSE il 10% salariato più agiato guadagnare rispetto al 10% salariato più povero: 5,9 volte negli USA; 4,0 volte in Canada; 4,0 volte in Italia; 3,8 volte in Gran Bretagna; 3,5 volte in Francia, tanto per citarne alcuni ( Atkinson e altri 1995 ) -, minore forza sindacale, minore capacità redistributiva del welfare e del sistema di tassazione.
Fisco e Governo giallo – verde –
L’Italia è, secondo l’analisi della Banca Mondiale del 2017, al 126° posto per livello di complicazione del sistema fiscale, lontani anche dal penultimo Paese dell’ Unione Europea ( Bulgaria ) che naviga attorno all’ 80° posto.
È questo il problema che il Governo giallo – verde dovrebbe affrontare, laddove invece non fa che complicarlo ulteriormente con la proliferazione di “Imposte sostitutive “.
Credo abbia perfettamente centrato il problema il Prof. R. Lupi, ordinario di diritto tributario all’Università di Tor Vergata, in ordine al coacervo di “Imposte sostitutive” e ” Tassazioni separate ” che caratterizzano il nostro sistema fiscale. Un coacervo che imporrebbe l’unica scelta vera e sensata del proclamato “Governo del cambiamento”: la riforma del sistema fiscale.
La ” Flat tax “, come visto di pretta natura neoliberista, esca elettorale e di propaganda, ha una caratteristica fondamentale sotto il profilo fiscale: è “regressiva” cioè avvantaggia i più ricchi, che già godono anche di ” Imposte sostitutive ” e ” Tassazioni separate “, e per quanti sforzi di correzione si possano ipotizzare attua un principio opposto a quello della “progressività “. La sua regressività è inemendabile.
Personalmente ci consideriamo profondamente europei ed italiani. Le logiche dell’America le prendiamo con razionalità e con il bilancino del farmacista ( cioè in dosi omeopatiche ), non accettando le spinte di una “privatizzazione” che annulla il senso profondo di uno stato sociale: di una società dove la sanità presuppone le assicurazioni; l’istruzione qualificata è privata e pagata; la produzione e la distribuzione energetica privata e via cantando, in un’orgia privatistica senza limiti.
La nostra idea profonda di Stato fa riferimento ad uno stato sociale, solidale, dove sono pubbliche ( ma certamente non gestite da politici ) le infrastrutture fondamentali ed i servizi pubblici e comunque controllati dalla mano pubblica anche nelle configurazioni di servizio fondamentali pubblico – privato.
Ma gli elettori hanno capito verso quale ” cambiamento ” finirà per portarci questo Governo?
Gianni Pernarella
Laurea in Giurisprudenza conseguita a Pisa e studi post laurea in Economia. Dipendente del Banco di sardegna dal 1973 al 2003. Dopo esperienza pluriennale di filiale, assume nel 1990 ruoli di responsabilità nella struttura centrale “Organizzazione e Sistemi Informativi” dove, in veste di funzionario capo progetto, ha gestito oltre 10 progetti organizzativi e relativi a sistemi informativi. Collaboratore per oltre 6 anni del SIL – PTO di Oristano; ha scritto quattro libri sulla materia del credito e dell'economia provinciale oristanese relativa all'artigianato.