di Adriano Sofri – Il Foglio_31 dicembre
Provo a rimettermi a giorno con gli studi gramsciani, per quanto è possibile con una mole di pubblicazioni internazionali ormai irraggiungibile. Nell’Edizione nazionale delle opere di Gramsci sono usciti otto volumi e decine di altri se ne preparano. I due di lettere, che comprendono quelle dei e fra i corrispondenti, si fermano al 1923. Einaudi ha ora pubblicato nei Millenni un’edizione monumento delle Lettere dal carcere (dal 1926 al 1937, l’anno della morte, 6 giorni dopo la libertà) con 1.262 pagine di testo e 114 di introduzione, e un ricco apparato di note e corredo fotografico. Le lettere qui raccolte sono 511, 12 inedite. Nella prima edizione Einaudi, 1947, erano 218, non sempre pubblicate integralmente. Si contava da tempo su edizioni pressoché complete e liberate da omissioni aggiustamenti e censure. La NUE del 1965, curata da Sergio Caprioglio ed Elsa Fubini, ne comprendeva 428, delle quali 119 inedite. In quella in due volumi curata per Sellerio da Antonio A. Santucci, 1996, le lettere erano diventate 494, 16 delle quali erano però istanze giudiziarie, distinte dall’epistolario privato, che ne aveva dunque 50 in più rispetto alla NUE. Francesco Giasi, il curatore del nuovo volume dei Millenni, ha anche appena curato con Gianni Francioni per l’ed. Viella “Un nuovo Gramsci. Biografia, temi interpretazioni”, coi contributi di diverse studiose e studiosi, alcuni dei quali figurano anche nell’edizione delle Lettere. Là un saggio di Silvio Pons suggerisce che la lettera di Gramsci del 14 ottobre 1926 a Togliatti e attraverso lui al Comitato centrale del Partito comunista sovietico, “appare ispirata per aspetti essenziali dalla lettura del ‘testamento’ di Lenin”. Cioè che la lettera di Gramsci (che Togliatti non inoltrò), derivasse dalla conoscenza del cosiddetto testamento di Lenin, “forse il singolo documento più controverso, fatale e lungamente sottoposto a oblio dell’intera storia del comunismo sovietico”.
L’interesse per Gramsci è più urgente per l’imminenza del centenario della scissione di Livorno che portò alla fondazione minoritaria del Partito comunista d’Italia, di cui Amadeo Bordiga fu l’autore incontrastato e Gramsci l’aderente riluttante. Ezio Mauro ha appena rintracciato il palchetto laterale del teatro Goldoni dal quale Gramsci presenziò, senza prendere la parola. (Quanto a Togliatti, era rimasto a Torino). Il tempo passato e i muri crollati non sono bastati a togliere vivacità e anche virulenza alle polemiche attorno a Livorno 1921 e anche attorno al rapporto fra il prigioniero Gramsci e il suo partito, tema audacemente e spericolatamente caro a Luciano Canfora. Per Sellerio, 2015, Giorgio Fabre ha ricostruito la storia dei tentativi falliti di liberare il prigioniero: “Lo scambio. Come Gramsci non fu liberato”. Un esempio rilevante si trova nel libro di Mauro Canali, “Il tradimento. Gramsci, Togliatti e la verità negata”, Marsilio 2013, che ha molti argomenti inconfutabili e qualche tono discutibile, in un ambito in cui i toni contano. Penso che Togliatti non avesse preservato il lascito epistolare e letterario di Gramsci invece di distruggerlo nella parte più pericolosa (malefatta per la quale avrebbe avuto del resto bisogno di troppi complici) solo per servirsene alla costruzione della genealogia della via italiana e della continuità Gramsci-Togliatti, ma anche per un intimo e inesplorabile rispetto e soggezione alle carte, a tutte le carte. Il comunismo nasconde le carte, non le distrugge: è una mania di tutti quelli che credono fermamente di precorrere la storia, e che la storia li assolverà.
Del fervore dello spettro del Pci che si aggira per l’Italia ha qui reso conto Francesco Cundari (“Cent’anni di tormenti e solitudine. Cosa resta del vecchio Pci”, 30 novembre). Al congresso di Livorno e alla storia del Pci sarà dedicato un numero di Micromega, la rivista cui oggi bisogna fare auguri speciali. Sommariamente, a me pare che le virtù di tante donne e uomini che sono stati comunisti sotto il fascismo e nella repubblica debbano smettere di agire secondo una teleologia rovesciata, facendo celebrare una scissione che fu una sciagura per la democrazia e per il socialismo: giudizio drammaticamente sereno che può esser detto con le parole di Antonio Gramsci. E che un simile giudizio, che può buffamente suonare ancora o coraggioso o temerario, secondo l’orecchio dell’uditore, non è che la proiezione di un altro e più drammatico giudizio che riguarda l’Ottobre russo. Del quale, nel punto cui era arrivato a distanza di tre anni, il congresso di Livorno fu una meccanica postilla. Di questo, caso mai, altrove. Intanto sono due gli aspetti particolari sui quali vorrei richiamare l’attenzione. Il primo riguarda la coprotagonista del carteggio di Gramsci, Tania Schucht. Questa magnifica donna, una magnifica donna normale, per così dire, era stata finalmente protagonista nel libro che le dedicò nel 1991 Aldo Natoli, “Antigone e il prigioniero. Tania Schucht lotta per la vita di Gramsci” (Editori Riuniti). L’uomo Natoli poté farlo con la partecipazione e l’intelligenza che gli aveva dato anche la personale esperienza del carcere fascista, appena documentata dalla raccolta delle sue “Lettere dal carcere (1939-1942). Storia corale di una famiglia antifascista”, curate per Viella da suo figlio Dario, a sua volta storico degli argomenti di cui stiamo trattando, ed Enzo Collotti. Nel 1997 Aldo Natoli e Chiara Daniele avevano finalmente pubblicato per Einaudi il carteggio fra Gramsci e Tatiana, 900 lettere corse fra il 1926 e il 1935, 1.532 pagine.
Degli affetti e dell’amore di e per Gramsci hanno scritto studiose partecipi come Adele Cambria, “Amore come rivoluzione. La risposta alle lettere dal carcere”, SugarCo 1976; Noemi Ghetti, “La cartolina di Gramsci. A Mosca, tra politica e amori, 1922-1924”, Donzelli 2013, e ora “Gramsci e le donne. Gli affetti, gli amori, le idee”, Donzelli 2020. Maria Luisa Righi, che per il volume dei Millenni ha curato la cronologia della vita di Gramsci e dei suoi interlocutori, documentò la vicissitudine romanzesca dell’amore di Gramsci per la sorella maggiore Eugenia prima dell’arrivo di Giulia. Nel volume di Viella “Un nuovo Gramsci” e nel Millennio Einaudi con le lettere è Eleonora Lattanzi a scrivere di Tania. I nomi delle tre sorelle sollevano l’argomento del rapporto fra Gramsci e le donne, trattato ampiamente e variamente da autrici femministe. Ed evocato originalmente dalla ricerca di Antonio Gramsci junior, figlio di Giuliano e nipote affezionato di Antonio, che sta per così dire dalla parte delle donne Schucht: “La storia di una famiglia rivoluzionaria: Antonio Gramsci e gli Schucht tra la Russia e l’Italia”, Editori Riuniti 2014.
Recensendo la nuova edizione delle lettere nei Millenni, Mattia Feltri ha riavvertito della condizione in cui Gramsci pensava e scriveva lettere e quaderni, la condizione oppressa ed esasperante di una prigionia senza romanticismo, e ne ha fatto occasione per una menzione del carcere contemporaneo. La galera infatti cambia davvero molto senza smettere di somigliare a se stessa. Le lettere dal carcere di Gramsci sono anche il diario della demolizione fisica, “molecolare”, di un uomo forte, sensibile e solo. “Io devo scrivere di botto, nel poco tempo in cui mi vengono lasciati il calamaio e la penna” (1927). Dall’arresto, nel novembre 1926, al gennaio 1929, Gramsci non poté scrivere. Alla corrispondenza era assegnato un tempo – due ore e mezza per due lettere – in un solo giorno della settimana, con “degli orribili pennini” e il rischio dell’epistolografia convenzionalmente carceraria. Succede di leggerlo come un classico della letteratura epistolare e civile dimenticando di che lacrime e di che sangue grondino le sue pagine, e di quali e quante censure. Un detenuto, ogni detenuto, sta dirimpetto al mondo di fuori con un suo dolore e un suo pudore, persuaso che i liberi, anche i più affettuosi e generosi, non possano capirlo davvero, ed è tentato di protestarlo: Non vedi che io sono in galera? Che io non dormo? A volte lo tace, altre lo grida, e anche a Gramsci avvenne di non riuscire più a tacerlo, perfino con i suoi, le sue, con Giulia, con Tania. “Un carcerato di poca salute che ha sempre i nervi scoperti a vivo…”. “Da quattro anni e mezzo non mi sono visto in uno specchio”. “Non riuscirai mai a comprendere che cosa sia la vita del carcere e le sue necessità” (1932). “Sono entrato in una fase della mia vita che, senza esagerazioni, posso definire catastrofica… Non credevo che il fisico potesse avere così il sopravvento sulle forze morali”. “Non posso masticare neanche il pane… Negli ultimi cinque anni ho perduto circa 15 denti”. “Hai contribuito a prolungare questo periodo di atroce agonia… Questo inferno in cui muoio lentamente”. “Mi sono abituato a prevedere con abbastanza freddezza di potermi trovare isolato e distaccato da tutti” (1933). “Che impressione ho avuto nel vedermi allo specchio dopo tanto tempo: sono ritornato subito vicino ai carabinieri” (1936).