di Umberto Cocco
Continuano ad emergere dall’oblio anno dopo anno nomi su nomi di militari italiani deportati nei campi di concentramento dai nazisti. Furono tra seicentocinquantamila e un milione, molte migliaia i sardi, si dice dodicimila.
Sono spesso solo nomi, raramente le storie vengono narrate, non sono state raccontate dai protagonisti se non in casa come una vicenda privata che anche i parenti si sentono in dovere di tenere per sé.
Appunto solo i nomi si conoscono, e l’essenziale della breve vicenda di ciascuno alla fine della guerra, l’arresto e – quando c’è stata – la liberazione per mano degli americani e dell’Armata Rossa, passati alla verifica documentale (Il libro dei deportati, gli archivi dell’Associazione nazionale reduci dalla prigionia Anrp, quelli di Bad Arolsen, la banca dati degli internati militari italiani Imi, il Foglio matricolare), dei sei provenienti dalla provincia di Oristano che il 27 gennaio scorso, Giorno della Memoria, sono stati insigniti della medaglia d’onore del Presidente della Repubblica.
Tutti ormai defunti, sono state consegnate ai parenti nel corso di una cerimonia nella prefettura, alla presenza dei sindaci di alcuni dei paesi d’origine, quello di Oristano, il prefetto, la delegazione dell’Anpi.
Di uno solo dei sei si conosce qualcosa in più, Ambrogio Santus, nato a Macomer nel 1920 ma cresciuto a Sedilo, dove nel 1999 un insegnante di scuola media attento alla storia, alle storie, Peppino Pinna, si vede portare da un ragazzo, Dario Santus, venti righe con la testimonianza del suo nonno allora ancora vivo, il racconto della partecipazione alla guerra nella Marina, l’arresto dopo l’8 settembre del 1943, due anni nei campi di prigionia dei nazisti, tutto tra virgolette, e quindici righe nelle quali il suo nipote fornisce un po’ di contesto e indirettamente fa dire al nonno cosa succedeva in quei due anni, la sparizione di molti compagni, i maltrattamenti, il cibo, il lavoro, le conseguenze del lager sui sopravvissuti che probabilmente lo incuriosivano vedendone i segni sul corpo del nonno ormai ridotto in carrozzina.
Degli altri cinque, ecco la scarna scheda.
Sono il soldato Domenico Mura di Fordongianus, fatto prigioniero a Cettigne il 12 settembre del 1943 e internato nel campo 38 di Bessarabia in Serbia dove venne liberato dopo poco più di un anno dalle truppe sovietiche che lo hanno tenuto per un altr’anno in Ucraina prima di rimandarlo in Italia nel novembre del 1945.
Michele Loi di Ardauli, allievo sottufficiale dell’aviazione è fatto prigioniero il 16 ottobre del 1943 mentre è a Venaria Reale. Internato nel campo di Norimberga, viene liberato dagli alleati il 25 aprile del 1945.
Un carabiniere originario di Zerfaliu, Salvatorangelo Manai, preso dai tedeschi con tutti i commilitoni e il comandante della caserma di Mondovì il 5 ottobre del 1943, internato nel campo di Handorf e Muster, viene liberato dagli americani. Torna in Italia a fine agosto 1945.
Più avventurosa la storia di Fortunato Demontis, di Riola Sardo, sergente artigliere fra le guardie di frontiera catturato dai tedeschi quattro giorni dopo l’8 settembre a Gradisca d’Isonzo e tenuto in più campi di prigionia fra Austria, Slovenia e di nuovo l’Austria. Riesce a evadere il 14 gennaio 1944, è preso quattro giorni dopo, scappa ancora per altre tre volte e ogni volta viene riagguantato e internato infine in Carinzia dove gli alleati lo liberano il 4 giugno del 1945.
Il soldato di Narbolia Peppino Zucca invece muore nel campo di Natzweiler l’ultimo giorno del 1944 dopo esservi stato condotto da Dachau. Muore di stenti, era stato arrestato il 9 settembre del 1943 mentre era in forze alla brigata Reggio a Reggio Emilia.
Tutto qua. Appunto, scarne schede. Raramente le storie di queste persone sono raccontate con più ricchezza di dettagli, a malapena sono state riferite a casa e anche i parenti tacciono, facendo tardi, a decenni di distanza, la domanda per il riconoscimento, ma pregando le autorità che riconoscono il sacrificio e le associazioni che approfondiscono la ricerca documentale – particolarmente attive nell’Oristanese l’Anrp e l’Anpi, particolarmente tenace Giovanni Fenu – di non andare oltre la medaglia e quella piccola scheda anagrafica e fattuale.
Viene fuori anche qui e a distanza di tempo l’assillo dei deportati al loro ritorno, il dramma collettivo e personale che ha investito – ed è stato raccontato – da Primo Levi innanzitutto, l’oscillare fra l’oblio e il ricordo, il privato della sofferenza trattenuta e il dovere della testimonianza.
Il perdurare di quel «non vogliamo pensare, non vogliamo sentire, vogliamo dimenticare il più in fretta possibile» che Etty Hillesum vede nel campo di Westerbork in Olanda e racconta nei diari e nelle lettere, provando a ribellarsi a questa pur comprensibile reazione al dolore umano così grande «più di quanto un individuo sia in grado di assorbire».
Non raccontava volentieri i due anni di prigionia e i tre successivi di ricovero in ospedale nemmeno Ambrogio Santus, nel ricordo del figlio Giuseppe.
La dura infanzia e l’adolescenza a Sedilo sino all’arruolamento nella marina militare, quella sì. Figlio di un fornaio originario di San Giovanni Suergiu – che il lavoro portò fra il Marghine e le sponde del Tirso – e di una donna di Aidomaggiore, Ambrogio aveva fatto tutti i lavori agricoli per aiutare la famiglia a campare. Portava uova da vendere a Macomer, a cavallo dell’asino, da Aidomaggiore e Sedilo, dove la famiglia con sei figli piccoli si era trasferita, e faceva fascine di legna nei sentieri, raccoglieva fieno, mieteva grano, rispondendo al nome di Giovannino Panettèri.
Chiamato militare in marina, ha ventitre anni quando si ritrova imbarcato come cannoniere nel cacciatorpediniere Alpino che con altri incrociatori scortava due corazzate della flotta della marina italiana il giorno che gli americani bombardarono il porto di La Spezia con cinquantaquattro aerei Liberator, ognuno dei quali portava un carico di dieci bombe. Era il 19 aprile del 1943.
Ecco come lo raccontava lui al nipote Dario:
“Nel tentativo di risalire sul ponte della nave in fiamme mi bruciai malamente in varie parti del corpo impigliandomi in quelle lamiere. Finii comunque in acqua perché la nave affondò. Venni tratto in salvo da due marinai veneziani e posto in una scialuppa. Quel giorno a La Spezia fu vera guerra. Bombe, fumo e fiamme dappertutto, sulla città e sul porto. La missione dei Liberator era completamente riuscita». Precisi ricordi, narrazione felice. Che continua:
«Venni portato all’ospedale di Carrara – quello di La Spezia era affollato di marinai feriti o ustionati – e ci rimasi sino ai primi di luglio. Poi mi mandarono a casa in convalescenza per due mesi. Il 5 settembre dovevo ripartire e rientrare a Venezia. Lo feci benché da Radio Londra e anche dalla radio italiana si sentisse parlare dell’armistizio imminente».
L’arresto e il campo di concentramento – due anni – sono liquidati in poche righe: «L’8 settembre del 1943, il giorno dopo che mi ero presentato a Venezia, ci fu l’armistizio, e due giorni dopo venni catturato dai tedeschi e deportato nel campo di Dieburg dove fui messo a lavorare alla riparazione delle condutture dell’acqua e del gas. Venni liberato dagli americani e subito ricoverato nell’ospedale di Klein Zimmer».
A conflitto ultimato viene trasferito in Francia, a Nancy, nel cui ospedale rimane per due mesi sino a novembre del 1945. Non è finita: «Fui rimpatriato su una nave ospedale e ricoverato nell’ospedale militare marittimo di Piedigrotta, a Napoli, dove rimasi degente per tre anni sino a tutto il giugno del 1948».
Dario Santus chiude il registratore, così sembra, comunque chiude le virgolette, e racconta lui un pezzettino della storia che sembrava mancante, o trattenuto, e probabilmente catturato a brani dalla voce del nonno: «Durante la permanenza nel campo di concentramento mio nonno quando veniva chiamato dagli aguzzini, e lui chino a lavorare non sentiva, veniva picchiato con violenti pugni alle spalle. Per quei colpi e forse per la debolezza in cui versava contrasse una infezione tubercolare ai polmoni e alle ossa.
Siccome nel campo la razione di cibo era scarsa – continua Dario – mio nonno appena poteva andava nella discarica più vicina per trovare qualcosa da mangiare, perlopiù bucce di patata.
Mio nonno racconta che ogni tanto qualcuno di quelli che erano con lui nel campo veniva prelevato e non vi faceva più ritorno.
Per lui c’era stata una sorta di tacito rispetto, ai tedeschi risultava il ferimento grave a La Spezia quando l’Italia era alleata della Germania. Al ritorno dalla prigionia, dopo la liberazione da parte degli alleati, mio nonno era in condizioni disumane, il suo peso era calato a 36 chili».
Gli riconoscono parzialmente malattie e invalidità, ma torna al lavoro in campagna, ai piccoli commerci, apre una fiaschetteria, un vicino fa la spiata e gli tolgono le indennità, si costruisce casa, nel 1950 sposa una donna di Sedilo, Rosaria Carta, hanno due figli, Giuseppe e Maria.
Cattolico praticante, Giovannino ha ottimi rapporti con il parroco don Pinna, milita nell’Azione cattolica e interloquisce con la Dc attraverso Salvatore Mannironi. Viene a sapere di un concorso per operai alle ferrovie e lo dà, lo vince, viene trasferito a Carbonia prima e poi a Cagliari dove i figli sono avviati al liceo scientifico. Ha un’emorragia cerebrale, gli viene concessa la pensione, torna a Sedilo con la famiglia e, incerto com’è sulle gambe e poi in carrozzina con posa serena di uomo mite e sorridente racconta e commenta storie nella via Colombo, evidentemente tacendo della sua personale e di quei due anni passati in Germania. Via Colombo è la strada di Sedilo dove ci sono più iscritti e voti al Pci, c’è un suo amico che è stato in carcere con Pertini sia pure accusato di avere commesso un omicidio durante una rissa. Altri sono stati latitanti, accusati o sospettati di far parte di bande diverse fra quelle che rivaleggiavano nel paese fra furti di bestiame e omicidi. L’eroico sembra sfiorare queste figure, quella è del resto la mitologia sedilese e in parte sarda. Sino a quando Peppino Pinna, che aveva già portato alla luce la morte di un pilota sedilese di 22 anni alle Fosse Ardeatine, non prova con la sua didattica a indagare e a far indagare anche le altre vite apparentemente normali.