Mercoledì 20 febbraio ho assistito alla presentazione del libro curato da Giuseppe Civati dal titolo: “Liliana Segre: Il mare nero dell’indifferenza”, tenutosi a Oristano al Cooworking 001 in via Garibaldi. Non ho ancora letto il libro, ma ho assistito al bellissimo reading di Marta Loddo e alla presentazione del curatore.
Sono stati ripercorsi alcuni momenti della terribile esperienza di Liliana Segre, ma in particolar modo ci si è soffermati su un concetto fondamentale: la forza distruttrice dell’indifferenza, il sentimento umano che ha permesso che le più grandi crudeltà del “˜900 avvenissero. È un principio semplice ma sfuggente: l’indifferenza è ancor peggio della violenza, perché alla violenza ti puoi ribellare, è possibile individuare un colpevole, mentre chi è indifferente in realtà non ha fatto niente e non si ritiene responsabile.
Mentre parlava l’autore, ho ripensato a due concetti che in questo periodo trovo in molte letture, in molte notizie: la banalità del male e la “giusta” reazione alla violenza.
Il primo è strettamente legato all’esercizio dell’indifferenza: il male prospera dove non c’è pensiero, dove si prende atto della realtà e del cambiamento senza cercarne le ragioni e verificarne gli effetti, anche quando il cambiamento porta il mondo in cui viviamo in una spirale tragica. Hannah Arendt, cui mi riferisco in questa mia modesta riflessione, nel documentare il processo di Heichmann (uno dei maggiori responsabili operativi dello sterminio degli ebrei nella Germania nazista) tratteggia molto bene il personaggio, scoprendo che costui non appare come un mostro, si tratta di persona normale che semplicemente riteneva di svolgere il proprio lavoro, incurante delle sofferenze e delle mostruosità che egli stesso commetteva, pur non sporcandosi mai direttamente le mani di sangue.
Così la piccola Liliana, in fuga dall’Italia, si vede respingere a più riprese, perché una legge, una regola, un impedimento non permettevano, anzi proibivano di tenderle una mano. Non c’è stata violenza, nessuna cattiveria, semplicemente indifferenza: si è fatto ciò che si doveva, si è fatto ciò che era prescritto, senza pensare alla crudeltà e alle conseguenze delle azioni non compiute.
È celebre la citazione della Harendt, che riporto: “È anzi mia opinione che il male non possa mai essere radicale, ma solo estremo; e che non possegga né una profondità, né una dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie. È una sfida al pensiero, come ho scritto, perché il pensiero vuole andare in fondo, tenta di andare alle radici delle cose, e nel momento che s'interessa al male viene frustrato, perché non c'è nulla. Questa è la banalità. Solo il Bene ha profondità, e può essere radicale”.
L’indifferenza non va a fondo, andando a fondo si praticherebbe la cura, l’interesse delle cose e delle persone. È l’antitesi della profondità, così come lo è il male.
Il secondo concetto mi ha portato a fare delle considerazioni su una ricorrenza. Poche settimane fa si è celebrato in Italia il Giorno del Ricordo, la commemorazione della strage di Italiani nelle foibe nell’Istria per mano dei partigiani Jugoslavi. Una strage di italiani in quanto italiani. Persone normali che avevano come unica colpa quella di far parte di un’etnia odiata. E per questa colpa venivano uccisi brutalmente.
Sappiamo bene come una destra nostalgica dei bei tempi del fascismo abbia usato questi avvenimenti per bilanciare le colpe del regime nei confronti degli ebrei con le colpe dei comunisti nei confronti degli italiani. Non sarò io a negare queste colpe, che rimangono scritte nei libri di storia, prima ancora che nella memoria collettiva.
Ma il punto è un altro.
Il fatto è che quello che è avvenuto in Istria, in Italia, in Polonia e in Germania, ha sempre la stessa origine, che non ha colore politico, ma risiede nella parte oscura dell’animo umano: è l’indifferenza verso l’altro, il sospetto, la chiusura, la creazione di confini, la distinzione tra il gruppo privilegiato e quello dileggiato. Sono queste pratiche e questi sentimenti che innescano la violenza cieca e sorda, che si disinteressa dell’altro, che pensa solo al sé, che sia individuale o nazionale.
È la creazione di confini e di sentimenti di conquista che ha innescato la Shoah, che ha portato all’aggressione colonialistica dell’Italia e alla reazione altrettanto violenta dei popoli Slavi, che ha generato gli omicidi e le barbarie della guerra civile italiana. La storia ha già decretato chi stava dalla parte del giusto, quali sono le vittime e quali i carnefici. I drammi del “˜900 non sono drammi neri o rossi, sono invece figli dell’indifferenza verso l’altro e della conseguente voglia di rivalsa di chi ha subito, che ha portato a una reazione uguale e contraria. Quello che invece io voglio sottolineare è che il male, ancorché banale, può essere estremo e, quando è veicolato dall’indifferenza, distrugge le vite delle persone soprattutto perché non si è fatto niente quando qualcosa si poteva fare.
Ritengo sia importante ricordare questi concetti in un momento storico in cui la notizia di 200 morti in Siria non interessa l’opinione pubblica, così come un barcone affondato nel Mediterraneo; un momento storico in cui si esulta se non si soccorrono le persone in mare, perché noi dobbiamo badare al nostro gruppo e gli altri si arrangino. Al massimo li aiutiamo in casa loro, ma non li accoglieremo più.
Chiudo questo pezzo sconclusionato citando Liliana Segre: “Prima, durante e dopo la mia prigionia mi ha ferito l’indifferenza colpevole più della violenza stessa. Quella stessa indifferenza che ora permette che Italia e Europa si risveglino ancora razziste; temo di vivere abbastanza per vedere cose che pensavo la Storia avesse definitivamente bocciato, invece erano solo sopite“.
Riccardo Scintu
Ha conseguito nel 2010 il Dottorato di Ricerca in Scienza Politica presso l’Università di Bologna, sede di Forlì. Laureato nel 2006 all’Università di Bologna in Scienze dell’Organizzazione e del Governo. Opera in numerosi enti locali della Sardegna come componente esterno di organismi di valutazione delle performance e come consulente sulle tematiche dell’organizzazione e della gestione delle risorse umane