Nei giorni scorsi il neo sindaco di Iglesias, Mauro Usai, ha ricevuto una telefonata intimidatoria attraverso la quale gli è stato chiesto, in modo perentorio, di abbandonare il proprio incarico.
Non è la prima volta che in Sardegna accadono episodi simili. Spesso, purtroppo, le minacce si sono concretizzate in veri e propri attentati nei confronti di tanti amministratori locali. Dall’invio di proiettili per posta, agli spari in casa o all’incendio dell’auto, le prepotenze esercitate verso chi guida i nostri Comuni sono sempre più frequenti.
L’associazione “Avviso Pubblico”, che da anni riunisce gli amministratori impegnati nella promozione della cultura della legalità, nel proprio Rapporto denominato “Amministratori sotto tiro” ha rilevato, solo nella nostra Isola, circa 50 casi di atti intimidatori perpetrati ai loro danni nel 2017. Ben 220 dal 2011 a oggi.
Dati in costante crescita, che coinvolgono altre regioni d’Italia ma che al Sud e nelle Isole si fanno più preoccupanti. Dati che, in particolar modo in Sardegna, non possono più essere trascurati.
La crescente attenzione sulla questione ha consentito l’approvazione, nel gennaio 2017, della “legge sugli Amministratori oggetto di minacce ed intimidazioni“, che ha inasprito le sanzioni a carico di chi commette tali atti, nel tentativo di arginare il fenomeno. Ma non è sufficiente.
La lotta contro l'illegalità non è un dovere unico delle istituzioni. Le regole della convivenza civile si apprendono in famiglia, a scuola, devono essere patrimonio di ogni cittadino e devono trovare una decisa applicazione nella vita di tutti i giorni.
I numeri legati al fenomeno sono davvero allarmanti e non possono trovare giustificazione nell’aumento del malessere sociale diffuso. C’è chi tenta di ricondurre tutto a un incremento della disoccupazione e della povertà. Ritengo sia gravissimo e umiliante per gli onesti. Può esserlo in parte, forse, ma la causa principale ha un’evidente matrice culturale e origini ben più profonde.
Credo si debba avere il coraggio di riconoscere un problema sociale di fronte al quale troppo spesso preferiamo glissare o minimizzare e che deve essere, invece, affrontato con fermezza.
Ancora oggi ci sono dei sardi, più o meno giovani, che continuano a riprodurre comportamenti deviati appartenenti a generazioni precedenti e che considerano innegabili e incomprensibili retaggi culturali, giusti strumenti di risposta a ingiustizie percepite (non necessariamente reali) o metodi efficaci per rinnegare l'autorità dello Stato, in un rigurgito di ridicolo “orgoglio isolano”.
Il termine balente che definiva, in origine, una persona forte e “di valore” ha identificato, nel tempo, individui che restano ancorati al passato, che non vogliono evolversi e modificare lo status quo e che pretendono di piegare al proprio volere chi vive nelle loro comunità o, addirittura, le istituzioni.
Certi atteggiamenti derivano da un’assenza di dignità, di valori, di rispetto per la libertà e per la vita degli altri e da un sentimento di resistenza nei confronti dell’autorità. Niente che abbia a che fare con l’essere persone di “valore” quindi, tutt’altro. E chi tace di fronte a questi atteggiamenti è complice.
L’arroganza, la prepotenza, l’ignoranza, non possono essere costruttive. Fino a quando anche alcuni intellettuali isolani continueranno a parlare di stereotipi senza fondamento e i sardi si risentiranno se qualcuno solleva la questione, rispondendo che ormai queste situazioni non esistono più e che si tratta di menzogne o, al limite, di casi isolati, non si riuscirà a vivere in modo totalmente sereno.
L’alone di omertà che circonda ancora chi minaccia violenza e chi la subisce, deve dissolversi. Il negazionismo che porta a quell’insopportabile eccesso di tolleranza nei confronti di chi assume comportamenti sbagliati, che sanno mettere in difficoltà le persone perbene, deve svanire.
Il cambiamento della società nasce dal cambiamento di ogni singolo elemento che la compone.
Ognuno di noi è responsabile. Ognuno di noi deve fare la propria parte.
Elisa Dettori