di Gianni Pernarella
Nell’ambito del dibattito che ha anticipato e accompagnato il confronto (I Manifesti) tra i quattro candidati alla Segreteria del P.D. ed in vista del successivo congresso che, auspicabilmente, abbia tra i principali obiettivi la (ri)definizione del profilo identitario del Partito, vorrei esplicitare le ragioni della mia scelta. Vorrei cioè rendere esplicito e disponibile al confronto il ragionamento di base che ha guidato la mia scelta e che lega “Primarie” e profilo identitario del P.D., che mi auguro scaturisca in modo chiaro dal prossimo congresso.
Vorrei pertanto confrontarmi sul tema e sulle correlazioni tra questi momenti.
In un incontro, svoltosi nel Circolo del P.D., circa a metà del mese di febbraio, nell’ambito dei confronti tra i candidati alle Primarie per la segreteria del P.D. ero intervenuto sostenendo in sintesi questa tesi: una (ri)definizione del profilo identitario del Partito passa, a mio avviso, dall’accettazione di un preambolo, che è culturale e politico ad un tempo, da porre a base nell’identificazione del profilo del Partito. Il preambolo è questo: il rifiuto del Partito in campo economico e sociale a scelte di ispirazione neoliberista.
Leggo ora (L’Espresso n. 8 del 26/2/2023 in un articolo di sintetica efficacia di Giuseppe di Marzo “Se la sinistra sposa il liberismo non è alternativa” pag.55) “ In democrazia non possono essere tutti uguali […] ci devono essere politiche economiche e visioni differenti su cui confrontarsi. Che le forze di destra portino avanti politiche (neo)liberiste…non stupisce: è quello che fanno da sempre…Il problema è quando l’agenda liberista viene abbracciata [come è avvenuto in Europa, Italia compresa, negli ultimi 20 anni] anche dalle forze che si definiscono di sinistra, progressiste e ambientaliste. Ai cittadini non viene data nessuna alternativa, né speranza nel futuro, mentre, grazie alle scelte fatte dalla politica, in pochi continuano ad arricchirsi nello stesso momento in cui le nostre vite peggiorano, minacciate da povertà, guerra e collasso climatico […] La crisi della nostra democrazia è conseguenza della fede nel liberismo economico che ha unito in maniera bipartisan le forze politiche. Un errore […] con cui non si vuole fare i conti…”.
E siamo così arrivati al punto. Questo mi porta a sottolineare come con l’apertura dei mercati prima e poi attraverso la liberalizzazione dei capitali (1992), che è un aspetto della globalizzazione di per se positivo, logiche neoliberiste l’hanno cavalcata con modalità aggressive e spregiudicate, divenendo il “modus” applicativo prevalente che – non contrastate o troppo debolmente contrastate da politiche fiscali degli Stati – hanno finito per generare una parziale distorsione del legame tra finanza ed economia reale, che ha visto la finanza imboccare strade in parte parallele ed autonome (c.d. finanziarizzazione dell’economia): cioè la finanza produce rendite che vengono reinvestite in finanza per produrre nuove rendite, sottraendo ossigeno all’economia reale.
E’ una teoria, quella neoliberista, che trascura del tutto gli effetti degli squilibri nella distribuzione dei redditi e della ricchezza, che è un effetto pressoché automatico connesso allo sgravio fiscale a favore dei ricchi; che trascura gli aspetti connessi alla redistribuzione. Assume, al contrario, quello della concentrazione sui ricchi nella logica del “trickle down”, gocciolamento dall’alto verso il basso, un mantra secondo il quale i benefici elargiti a vantaggio dei più ricchi favorirebbero “ipso facto” l’intera società, compresa la fascia media e la popolazione marginale e disagiata: appunto per gocciolamento che colerebbe dalle mani dei ricchi. Si omettono pertanto del tutto i fenomeni della povertà e della disoccupazione e del connesso blocco dei ceti sociali, determinato dal mancato funzionamento dell’“ascensore sociale”, di cui uno dei meccanismi fondamentali è l’istruzione.
Tra i mantra del neoliberismo l’applicazione in campo fiscale di una “flat tax” (unica tassa) viene venduta come modalità che contribuirebbe a combattere l’evasione fiscale e fare emergere il “sommerso”. Per capire, nell’applicazione di questa logica, quanto fondate siano le prospettive di recupero di base imponibile, è sufficiente la verifica sul tassi di evasione fiscale nei Paesi europei in cui è applicata (in grande maggioranza Paesi dell’Est Europa), assumendo come confronto il tasso di evasione fiscale in Italia che, calcolata sul PIL è pari al 27%. Segnalo quindi che nei paesi considerati oscilla tra il 29,2% della Lettonia, passa al 35,0% in Bulgaria prosegue con il 52,0% in Russia e trova il suo apice nel 72,5% in Georgia. Ho citato solo alcuni Paesi dal minimo al massimo, ma altri ce ne sono che comunque si collocano in questo intervallo. L’evidenza dei dati ci dice chiaramente che il recupero dell’evasione fiscale attraverso la “flat tax” è privo di fondamento e si presenta invece come cortina dietro cui si cela l’obiettivo neoliberista di rendere i già ricchi ancora più ricchi attraverso l’effetto regressivo (e non progressivo come vuole la Costituzione) della “flat tax” stessa. Il risultato è un enorme aumento del livello delle disuguaglianze, già elevato nel nostro Paese.
Al riguardo va sottolineato che tutte le più accreditate ricerche economiche recenti (T. Piketty “ Il Capitale nel XXI secolo “; A. Atkinson “ The Economics of Inequality “; J.Stiglitz “ Il prezzo della disuguaglianza” ; F.M.I – Fondo Monetario Internazionale; OCSE e in precedenza J.K.Galbraith e altri ) hanno evidenziato:
a – la fallacia della tesi neoliberista secondo cui la disuguaglianza non avrebbe influenza sulla crescita economica;
b – la, invece, accertata forte correlazione negativa tra disuguaglianza e crescita economica, sottolineando, al contrario, che i Paesi più attivi nelle politiche di redistribuzione del reddito hanno la tendenza a crescere più rapidamente.
Gli Stati europei, Italia compresa (e in quest’ambito anche il P.D.) hanno illusoriamente sottovalutato gli effetti – non della globalizzazione in quanto tale che è suscettibile di produrre impulsi favorevoli – ma uno sviluppo della stessa nell’ambito delle distorsive logiche neoliberiste.
Ci si è dimenticati, consapevolmente o meno, della lezione fondamentale del Nobel dell’economia J.K.Galbraith nel sottolineare ripetutamente che le regole dell’economia non stanno nel mercato ma nelle sedi politiche (che è peraltro un concetto opposto a quello neoliberista che, in generale, non vuole “Stato” in economia ): cioè è la “Politica” quella con la P maiuscola, sono cioè i Governi che devono stabilire le regole, quindi il recinto, entro cui deve muoversi l’economia.
E siamo giunti al termine.
Ho attentamente letto “ I Manifesti” dei quattro candidati alle Primarie, che peraltro hanno moltissimi punti in comune.. La mia scelta per la Schlein è stata determinata dalla circostanza che sembra essere stata l’unica ad avere identificato come cruciale quella che è, nella mia valutazione, la discriminante su cui dovrebbe basarsi il profilo identitario del P.D., come spero esca dal congresso.
E’ scritto nel Manifesto della Schlein (pag. 7 al 5° paragrafo) “…Una sfida da non leggere nella semplice divisione tra quanto riformismo e quanta radicalità ci servono, ma nello sfidare culture di provenienza su un terreno ineludibile per tutte, nel campo progressista e dentro questo partito: come cambiamo il modello di sviluppo neoliberista che si è rivelato assolutamente insostenibile, che si nutre dell’aumento delle disuguaglianze e che distrugge il pianeta”.
Mi piace terminare citando ancora il paragrafo di chiusura di Giuseppe di Marzo “…Quello che la nostra democrazia non può più sopportare invece, pena la fine della Repubblica, è l’assenza di forze politiche capaci con le loro proposte e la loro visione di società di rappresentare culturalmente e politicamente una alternativa vera alla destra”.
Un monito ed un invito al coraggio che spero il congresso P.D. faccia suo. La Schlein non deve dimenticare la direzione individuata come fondamentale: questa è la vera discriminante su cui basare la identità del Partito.