di Giampiero Vargiu
Il 10 dicembre 1948 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite proclamò la Dichiarazione universale dei diritti umani.
Gli orrori della seconda guerra mondiale erano un ricordo recente, uno shock di scala planetaria, per cui era fortissima l’esigenza di fare qualcosa perché l’umanità non precipitasse in simili abissi. Bisognava fissare sulla carta i diritti inviolabili alla base di una nuova idea di civiltà: diritti da non infrangere a nessun costo.
La Dichiarazione inizia con la famosa frase “Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti”.
Per ricordare la proclamazione del documento, nel 1950 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha indetto la Giornata mondiale dei diritti umani, che si celebra il 10 dicembre.
Dai primi mesi del 2020 i grandi eventi sono stati penalizzati dalla situazione sanitaria a seguito della pandemia da coronavirus, ma, grazie alle nuove tecnologie digitali, il 10 dicembre scorso, in Italia, si è svolta un’assemblea online delle scuole italiane, sul tema dei diritti e della responsabilità. Un incontro trasmesso in diretta sulla piattaforma Zoom, in cui gli studenti stessi sono stati relatori.
“La dignità umana è inviolabile”, concetto ripreso dalla “Carta dei Diritti Fondamentali della Unione Europea nel 2000.
L’articolo 32 della Costituzione dell’Italia recita “……… La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”
Solo in alcune parti del mondo i diritti umani hanno fatto passi da gigante. In varie parti del mondo, invece, le guerre e la fame distruggono intere popolazioni e chi sopravvive è costretto a migrare.
Scriveva Nilufer Demir, la fotoreporter che ha scattato la foto simbolo della crisi umanitaria legata all’immigrazione “Aylan Kurdi giaceva senza vita a faccia in giù, tra la schiuma delle onde, nella sua t-shirt rossa e nei suoi pantaloncini blu scuro, piegati all’altezza della vita. L’unica cosa che potevo fare era fare in modo che il suo grido fosse sentito da tutti”.
Sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, Aylan, tre anni, è morto scappando dalla guerra. Insieme a lui hanno perso la vita altre 11 persone, tra cui il fratello Galip, che di anni ne aveva 5. Un’immagine che è rimbalzata sulle prime pagine di alcuni dei principali giornali del mondo e che è diventata il centro del confronto politico internazionale sulla questione dei migranti.
In tanti oggi hanno dimenticato quelle immagini.
Pina Deiana, 60 anni di Sedilo, psicologa di scuola sistemico – relazionale, collaboratrice da otto anni di Medici senza Frontiere nei campi profughi di mezzo mondo, è stata relatrice nello workshop con il titolo “Rifugiati con disagio mentale. Bisogni dei beneficiari e risposte dei sistemi di cura e d’accoglienza”, svoltosi a Roma nel maggio 2013 e promosso dal Progetto Kairos della cooperativa Aelle il Punto.
In tale occasione, Pina Deiana, tra gli altri concetti espressi, ha detto “Intendo fare un discorso generale riguardo ai processi psichici che accompagnano tutte le persone che lasciano, più o meno forzatamente, il proprio paese per vivere in un paese di adozione.
Vivere in un paese d’asilo comporta l’attivazione di processi che si articolano essenzialmente su:
- Lutto migratorio: ossia l’elaborazione della separazione da tutto ciò che fino a quel mo- mento ha rappresentato il proprio mondo e la propria identità;
- Ridefinizione identitaria: ossia il superamento della crisi, più o meno profonda, indotta dallo sradicamento e dalla ricerca di adattarsi al nuovo mondo.
Benché la maggior parte di questi processi si realizzi nei primi due anni di vita lontano da “casa”, essi non si esauriscono mai.
Infatti, la migrazione comporta la separazione da tutto l’universo nel quale si è vissuti, universo affettivo, relazionale, culturale e linguistico: ci si separa dai luoghi a cui si era legati e che facevano parte del proprio ambiente di vita.”
Ma il mondo, compreso quello occidentale, oggi è assente su questi temi, è concentrato sulla pandemia da coronavirus. Forse, questi temi hanno interessato pochi anche prima della pandemia, tutti intenti a coltivare la paura dell’”altro” per scopi propagandistici e di consenso elettorale.
Nella NUOVA di oggi, a pagina 7, è riportato un pezzo che riguarda Pina Deiana dal titolo “Il gioco per restituire il sorriso ai bimbi testimoni dell’orrore”.
La psicologa di Sedilo porta avanti un progetto di giocoterapia a favore di bambine e bambini, ragazze e ragazzi che arrivano nei campi profughi in varie parti del mondo. Bambine e bambini che hanno visto l’inferno, le teste mozzate dei loro genitori da parte degli aguzzini dell’Isis e rotolare ai loro piedi. Hanno visto saltare i loro amici in aria sulle bombe inesplose in Afghanistan, hanno visto la morte attraversando in gommone, di notte e in inverno, il tratto di mare tra la Turchia e l’isola di Lesbo.
Dice Pina Deiana, in merito a quanto fatto con le bambine e i bambini al campo profughi di Moria a Lesbo, «Li abbiamo riuniti in gruppi il più possibile omogenei e abbiamo giocato facendogli descrivere un racconto con due personaggi immaginari, sui quali hanno proiettato il loro vissuto, i loro incubi, le paure, e persino i desideri. Il racconto era di tutti e di nessuno. E lì sono emerse storie indicibili, anche per noi adulti. E alla fine, dopo otto interminabili sedute abbiamo trasformato la loro sceneggiatura in un libriccino con i disegni che abbiamo dato a ciascuno di loro. Chi leggeva, chi raccontava la storia ai genitori, chiamati per la prima volta ad assistere, descriveva un mondo altro, passato, se non proprio lontano».
A Moria una persona su due è minore. Bambine bambini, cresciuti e incattiviti in poco tempo. Dopo pochi giorni dal loro arrivo cominciano gli episodi di sofferenza, tra questi l’enuresi, mal di pancia, mal di occhi, dolori alle ossa.
Con la giocoterapia i bambini solo in parte possono assorbire i loro terribili traumi.
L’umanità sembra essere piombata in un’apatia generale rispetto a queste situazioni, tutto sembra scivolare addosso ai decisori politici e le grandi potenze pensano alla ripresa economica finanziando in grande stile anche le “fabbriche di morte”: la corsa agli armamenti non si arresta.
Nel primo discorso del suo recente viaggio in Iraq, nel palazzo presidenziale di Baghdad, Papa Francesco ha chiesto la fine di “violenze, estremismi, fazioni e intolleranze”, perché dopo guerre e pandemia il futuro del Paese sia costruito sui diritti garantiti a tutti i cittadini: “Nessuno sia considerato cittadino di seconda classe”.
Rivolto alle Autorità “tacciano le armi, è l’ora di cooperare in armonia”.
Di fronte a questi scenari, serve un risveglio delle coscienze e un forte attivismo nella direzione di costruzione della pace.
Serve un movimento dal basso dei giovani che, al pari delle proteste sui cambiamenti climatici con Fridays for Future, metta i potenti della Terra di fronte alle loro responsabilità in tutte le guerre che insanguinano il mondo.
Un futuro di pace è possibile ed è, soprattutto, indispensabile se si vogliono davvero eliminare le disuguaglianze sempre crescenti nel mondo di oggi.