Nell’Isola diventa sempre più pressante la discussione sulla questione identitaria. Confrontarsi su questo tema dovrebbe rappresentare un’opportunità per comprenderlo al meglio, al fine di poterne cogliere non solo gli aspetti positivi ma anche elementi di chiusura e contraddizioni. Spesso, ad esempio, si sente parlare di “unica identità” e questo può destare, in alcuni, qualche perplessità, poiché esprimersi in questi termini lede giocoforza le peculiarità del singolo individuo e delle singole piccole comunità.
La standardizzazione dell’identità non è mai positiva, sia che l’imponga la globalizzazione (come tanti sardi temono) sia che la promuova una singola Regione. Chiedo: è possibile, ad esempio, parlare di identità unica in un contesto che trova la propria principale caratterizzazione in un’infinità di varianti dialettali, usi, costumi differenti? Un sassarese è, per cultura e tradizioni, uguale a un cagliaritano? È possibile che l’identità a cui si fa riferimento sia in realtà qualcosa di effimero? Spesso, quando si pongono delle domande precise in merito agli appassionati del genere, difficilmente si ottengono risposte chiare ed esaustive. Un po’ come accade con la religione, non esistono spiegazioni: o ci si crede oppure no. È una questione di fede in qualcosa che è lì, granitico e immutabile. Fede nell’improbabile forse, perché sappiamo bene che l’identità, individuale e collettiva, è un qualcosa in continua evoluzione. Guai se così non fosse.
L’essere umano, nel tempo, non è mai uguale a se stesso e sente, per natura, la necessità di confrontarsi, crescere e migliorarsi anche a costo di dover rinnegare la precedente versione di sé. Ecco che quindi, per alcuni, un certo modo di vivere l’identità rappresenta qualcosa di negativo, poiché cristallizza e porta all’annullamento del singolo, al negargli la possibilità di evolversi. Senza considerare il fatto che può rappresentare, altresì, un elemento fortemente divisorio. Basterebbe possedere una seppur minima conoscenza storica per comprendere che l’estremizzazione delle teorie identitarie e nazionalistiche (non poi così distante dal comune sentire di molti isolani) ha scritto orribili pagine di Storia.
L’atteggiamento nazionalista è figlio di un istinto naturale che porta a chiudersi all’interno del proprio gruppo di appartenenza, per evitare possibili contaminazioni con ciò che arriva dall’esterno e fa paura. E la paura è generata dalla mancanza di conoscenza. Il senso di precarietà causato dalla globalizzazione, che ha forti effetti sulle vite di tutti ma non si riesce a comprendere fino in fondo, possiede innegabili vantaggi. Forse, anziché provare a contrastare il fenomeno come moderni Don Chisciotte, dovremmo lavorare su noi stessi e per le nostre comunità per fare in modo che, alla globalizzazione economica, ne seguano una sociale e culturale. Questo non implica il dover rinunciare alle specificità locali, tutt’altro. Proprio da queste è doveroso infatti creare una solida base dalla quale promuovere un dialogo aperto con il resto del mondo, a volte anche a costo di sacrificare qualcosa che necessariamente deve essere adattata a nuove sfide, finanche a “esigenze di mercato” ma che, nello stesso, non deve certo trovare totale alienazione.
Pertanto, quando l’eccessivo radicamento nelle proprie convinzioni porta a innalzare quei muri che, da legittimi strumenti di difesa, divengono vere e proprie trincee che chiudono ogni possibilità di confronto e contaminazione con l’esterno, è legittimo pensare che forse la questione identitaria nell’Isola dovrebbe essere ben più ragionata e discussa.
È innegabile infatti che una certa parte della nostra comunità percepisca quanto si discosta da ciò che è conosciuto come un qualcosa di negativo, addirittura minaccioso per la propria identità, quando invece può esserci complementarietà. Un esempio lo troviamo facilmente in riferimento alla questione linguistica. Sono tanti i sardi che, in alcuni casi fomentati da movimenti politici locali, forse travisandone alcuni posizioni, giungono a conclusioni estreme che talvolta sfociano in un’ingiustificata intolleranza nei confronti di tutto ciò che rappresenta l’italianità in Sardegna. Ecco che in tal modo, ad esempio, la degenerazione di un principio condivisibile che punta a mantenere viva la nostra lingua, diviene precisa volontà di annullare totalmente quella italiana dal nostro parlato a favore di quella sarda. Come se parlare l’italiano, lingua che ci avvicina a più persone rispetto alle diverse varianti locali dei nostri dialetti divenisse, paradossalmente, elemento esclusivo rispetto a una parlata che rischia, a distanza di una manciata chilometri, di rivelarsi incomprensibile, creando non poche difficoltà di comunicazione. Il voler essere fortemente reazionari in questo senso, è inoltre degenerato nell’invenzione e utilizzo della LSC (Limba Sarda Comuna), lingua studiata a tavolino, ingessata, che non salvaguarda certo le diverse espressioni dialettali isolane e che alcuni trovano poco edificante.
Forse ci si dovrebbe concentrare, in primo luogo, sull’identità individuale e sulla capacità di ognuno di riconoscersi in principi e ideali che appartengono a tutti gli uomini, prima che alla comunità nella quale si vive. Non accettiamo la chiusura mentale che scaturisce dall’essere troppo radicati su certe questioni e che porta a percepire mescolanze e novità come mostri dai quali difendersi. Accettiamo il fatto che si possa vivere senza un’identità così come viene concepita e che staccarsi da certi modelli culturali possa aiutare a focalizzarsi su nuovi obiettivi e a ottimizzare le energie.
Comprendiamo che l’unica possibilità che abbiamo è conoscere ma che, la conoscenza, richiede sacrificio, impegno e l’abbandono di quelle certezze nelle quali noi sardi amiamo crogiolarci (su connottu). Perché se è vero che il disagio economico e sociale ottenebra la mente, è vero anche che “non è la specie più forte o la più intelligente che sopravvive, ma quella che si adatta meglio al cambiamento”. Non è certo barricandoci dietro le nostre presunte certezze e rifiutando ogni forma di dialogo e scambio che riusciremo a migliorare la nostra qualità di vita.
Elisa Dettori