Nelle ultime settimane, stiamo assistendo a un graduale allentamento delle misure restrittive imposte per affrontare nel modo più sicuro l’emergenza coronavirus.
Al momento, un po’ tutti facciamo i conti con le conseguenze economiche e sociali drammatiche, derivanti da mesi di stravolgimenti senza precedenti, che hanno minato le sicurezza di molti e aggravato le condizioni già precarie di tanti.
In questi giorni di ripartenza, sento vari esperti interrogarsi sugli effetti psicologici della paura provata per il possibile contagio o della reclusione forzata, che ha tenuto ognuno di noi distante non solo dalle proprie abitudini ma, più di tutto, dagli affetti.
Noia, rabbia, stress, acuirsi di timori spesso ingiustificati. Un quadro complesso, tuttora in via di definizione, che stimola tanti confronti tra specialisti e richiederà del tempo per essere compreso.
Tuttavia, più leggo e approfondisco, più mi rendo conto che troppo poco si è parlato – e si parla – dei degenti negli ospedali e dei loro cari che, oltre ad aver subito le difficoltà di tutti, hanno patito il peso di un carico emotivo ulteriore, con questa lontananza forzata.
Ancor prima del lockdown, infatti, le strutture ospedaliere e le RSA sono state letteralmente blindate, per evitare che contatti indiretti con l’esterno, tramite parenti e amici, potessero agevolare l’ingresso del virus nei reparti, sottoponendo a un grave rischio la vita di soggetti già fragili.
Una decisione severa ma necessaria di cui chiunque, soprattutto nella fase iniziale di questa pandemia, ha compreso e condiviso le ragioni.
Passate le prime settimane, però, ciò che è stato da subito considerato ovvio e giusto, ha iniziato a rivelarsi un calvario non solo per i degenti ma anche per chi, da fuori, si sentiva impotente sapendo che chi amava si trovava isolato, senza nessuna possibilità di contatto e conforto amorevole.
Ho iniziato presto a chiedermi se fosse possibile trovare soluzioni adatte, soprattutto per i malati oncologici gravi, magari in fase terminale o per chi ha subito danni cerebrali e si trova impossibilitato ad utilizzare smartphone e tablet. Non esisteva nessun modo per ovviare al problema? Era davvero impossibile e così rischioso far sì che almeno un familiare potesse vedere, anche solo per poco, un ricoverato, prendendo tutte le dovute precauzioni del caso?
Tanti, a casa, sono stati tranquillizzati da chiamate o videochiamate ma non tutti i pazienti sono in grado di farle. Molti sono stati rassicurati dal personale sanitario che ha promesso un contatto tramite tablet che, poi, non è mai avvenuto. O, se sì, è stato realizzato in modo estremamente frettoloso e indelicato. Come indelicato è stato non fornire, spesso, nemmeno notizie per telefono sulle condizioni di salute dei ricoverati.
Situazioni drammatiche. Solo chi le ha vissute potrà capire fino in fondo il senso delle mie parole.
Al momento, i dati sui contagi in Sardegna sono in costante riduzione. Oggi, proprio quando si rinizia a vivere in modo quasi normale, in una Regione dichiarata pressoché libera dal Covid, non è ancora possibile fare visita ai propri cari ammalati.
Una situazione vergognosa, che non trova nessuna giustificazione nei dati sulla diffusione del virus che si rivelano più che ottimistici ormai da settimane.
E il mio pensiero non può non andare ai malati gravi, ricoverati nei reparti oncologici.
L’accettazione di una malattia oncologica e il relativo processo di adattamento psicologico, sono percorsi difficili e sofferti, che travolgono tutti i soggetti coinvolti: il malato e gli affetti che lo circondano.
Percorsi graduali, di lotta contro se stessi, contro la paura, la rabbia, la frustrazione, mentre si tenta di acquisire sul campo e a proprie spese, strumenti che possano aiutare a gestire il disagio causato dalla malattia, senza perdere se stessi, la propria lucidità e il proprio autocontrollo.
Percorsi complessi in tempi “normali”, che richiedono sforzi titanici in tempi di pandemia.
Il senso di abbandono è un dramma nel dramma, che incide negativamente su una situazione emotiva delicata e sul fisico. Incide sulla qualità della vita di chi soffre e sulla sua capacità di reagire e combattere.
Sapere che, allo stato attuale, non sia ancora possibile accedere ai reparti per le visite, è inaccettabile. Associazioni e famiglie hanno fatto numerosi appelli perché la situazione cambi ma sono caduti nel vuoto.
Nel mio piccolo, voglio unirmi a loro.
Per quasi tre mesi, abbiamo scritto tutti insieme l’inno al cambiamento positivo di una società che sarebbe diventata più solidale, più umana e più attenta nei confronti dei soggetti vulnerabili.
Lasciare dei pazienti da soli in ospedale, spesso a fare i conti con un tempo a disposizione limitato, che fugge inesorabile e non aspetta, non è nessuna di queste cose.